tura - Piera
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ANGELO DETTORI GOLOSSARIO SARDO –LOGUDORESE Indagine su vocaboli enigmatici, ignorati o mal noti per la salvezza del patrimonio linguistico sardo EDIZIONI 3T – CAGLIARI 1978 2 PRESENTAZIONE Presento umilmente agli studiosi di linguistica ed a tutti coloro che hanno a cuore il patrimonio linguistico sardo questo studio di indagine su vocaboli enigmatici, ignorati o mal noti delle parlate dei nostri padri antichi. Non pretendo d'aver fatto un'opera di scavo in profonditàdel nostro lessico; tuttavia ho motivo di ritenere di aver ottenutoqualche risultato utile per tutti i cultori del sardo idioma. E se riceverò qualche autorevole consenso, questo sarà il miglior premio per questa mia umile fatica. Angelo Dettori 3 4 ABBREVIAZIONI a. – anno, avanti A. - autore agg. - aggettivo Arch. - Archivio art. - articolo camp. - campidanese cat. - catalano cit. - citato-a cm. - centimetri Cod. - Codice collett. - collettivo cong. - congiuntivo CSNT - Condaghe San Trullas CSPS - Condaghe San Pietro di Silki DES - Dizionario Etimologico Sardo det. - determinativo dim. - diminutivo ecc. - eccetera Et., et. - etimo f. - femminile fasc. - fascicolo fig. - figurato-a franc. - francese id. - idem imp. - imperativo interiez. - interiezione it. - italiano-a lat. - latino log. - logudorese m. - maschile manoscr. - manoscritto-a merid. - meridionale mod. - moderno nuor. - nuorese op. - opera pag. - pagina pers. - persona pl. - plurale pres. - presente Rep. - Repubblica sec. - seconda sett. - settentrionale-i sing. e s. - singolare sost. - sostantivo spagn. e sp. - spagnolo Stor. - Storico StSa - Studi Sardi suff. - suffisso term. - termine Terran. - Terranova top. - toponimo V. - vedi v. - verbo voc. - vocabolo vocab. - vocabolario vol. – volume 5 6 ENIGMI ED ASPETTI PECULIARI DELLA LINGUA SARDA Con la ripresa e l'approfondimento degli studi sui dialetti sardi ad opera di linguisti moderni, specialmente del Wagner che vi ha dedicato decenni di febbrili indagini e di dotte elaborazioni, in questo secolo il sardo è ormai riconosciuto come una lingua vera e propria. E per lingua sarda deve intendersi il complesso dei dialetti, cioè del logudorese, del nuorese (esteso ad una vasta area del centro), del campidanese o meridionale, esclusi il gallurese, il sassarese, l'algherese ed il carlofortino che hanno origini e caratteristiche diverse e sono dissimili anche fra loro. Questa lingua riflette le condizioni di una economia curtense, cioè di vita economica e sociale sin dall'origine e per molti secoli di una società chiusa nei confini dell'Isola: la società agro-pastorale. Perciò il suo lessico comprende prevalentemente i vocaboli della vita rustica. Il sardo, quindi, è una lingua lessicalmente povera a paragone di altre lingue romanze, sebbene arricchitasi con assimilazioni di varia natura nell'età moderna. Formatasi durante la dominazione romana dell'Isola, già strappata ai punici che ne avevano fatto una provincia di Cartagine, ebbe per nutrici più generose la lingua greca e la latina, prevalentemente questa, con le quali ha amalgamato le sue parlate originarie. La grande analogia che il sardo serba col latino è stata, per molti secoli avanti, motivo di sorpresa e meraviglia per gl'incolti, di indagine e ammirazione per gli studiosi. Le infiltrazioni di genti d'oltre mare attraverso scali marittimi divenuti empori, l'insediamento di colonie e le dominazioni straniere nell'andare dei secoli non potevano non influenzare e trasformare il substrato, racchiuso nelle articolazioni dei neolitici sardi e delle genti nuragiche, a noi sconosciute per la mancanza di una grafia che nessun reperto archeologico ci ha tramandato. Così il sardo trasse linfa dal greco attraverso gli insediamenti ellenici passati al nord della Corsica, tanto che ancora oggi se ne hanno chiare vestigia in vocaboli in uso, come theràccu (da therapon, servo), orìzu e orìzàre (da orizo, orlo, margine, confine), mustàzzu (da mustacs, baffo), 7 ingalenàre per assopire, appisolare (da galene, calma, bonaccia) condàghe (da contàchion) e tanti altri. Assimilò anche molti vocaboli fenici attraverso gli scali marittimi e commerciali di Calaris, Nora, Bitia, Sulcis, Tharros, Cornus, Turris e Olbia, che furono i principali, divenuti poi centri sardo-punici di espansione economica e culturale. Introdusse perfino un filone berbero, limitato ad una ottantina di vocaboli — come ci riferì il Wagner allorché da Washington tornò in Sardegna nel gennaio del 1956—; per es. tilighèrta (lucertola), tilingìòne (lombrico), tiligùgu (cicigna, specie di lucertola), tilipìrche (cavalletta), tilibrìu (falchette) ed altri vocaboli estesi variamente alla vita rustica. I vocaboli citati, che iniziano con la sillaba ti, nell'originario berbero avevano questa sillaba per articolo, per cui erano nominati: lighèrta, lingiòne, ligùgu ecc.; ed incorporati poi nel parlare incolto dei sardi furono rimpinzati con gli articoli sardi sa o su al singolare del logudorese e dei rispettivi plurali La dominazione spagnola, che durò ben quattro secoli, influenzò a lungo la lingua sarda. Così abbiamo nel sardo molti catalanismi e spagnolismi. Es.: assussegàre, assussegàdu, denominali di assussègu o sussègu (rispettivamente per acquietare, calmare, calmo o tranquillo, quiete o riposo); ampàru (guida, sostegno, protezione); hermànu (germano, puro); olvìdu e olvidàre (per oblio e obliare); sobràdu (per avanzato, maggiore, sovverchio); ventàna (finestra, balcone); hermòsa, hermosùra (per bella o avvenente, bellezza o avvenenza); herège (eretico); trampa, trampèri (per inganno o truffa, ingannatore o truffaldino). Durante la dominazione aragonese numerose colonie ebraiche, provenienti da Barcellona e dalle Baleari si stabilirono nell'Isola e aumentarono il numero degli ebrei che già vi risiedevano. Attraverso il consolidarsi di queste colonie, nei centri più importanti come Alghero, Oristano, Bosa, Iglesias, ancor più a Cagliari dove esisteva già da tempo una sinagoga, e l'espandersi dei loro commerci, la lingua sarda assimilò pure dei vocaboli ebraici, non molti però, come vorrebbe lo Spano. Con la dominazione sabauda, che ebbe inizio nel 1720, il sardo ha assimilato molti 8 vocaboli italiani, specialmente della terminologia del costume, della tecnica, dello sport. Quest'assimilazione, che si riscontra facilmente nelle parlate odierne, ha inizio soltanto nell'800 perché in Sardegna ha continuato a sopravvivere ufficialmente la lingua spagnola, parlata e scritta (nelle scuole come nelle chiese, presso i notai e nei tribunali, in uffici pubblici e privati) per tutto il '700 e fino a dileguarsi e scomparire intorno al primo decennio del secolo successivo. Pur attraverso questo crogiuolo in cui nei secoli si è sviluppato a suo modo, il sardo ha mantenuto integra fino ad oggi la caratteristica che lo avvicina al latino (la stessa che aveva stupefatto Dante e Fazio degli Uberti), pur conservando dei filoni lessicali del substrato, con particolari aspetti nella sua toponomastica. Ed il substrato ci tramandò degli enigmi che attendono ancora la voce veritiera dell'oracolo. Vediamo di passare in rassegna dei vocaboli, già esaminati da studiosi o da sviscerare ancora, che per il loro «colore oscuro» o per discusse e non sicure o non esatte interpretazioni, meritano l'attenzione di specifici cultori e non di questi soltanto. ABBA CRASTA - E' l'acqua un po' oleosa che spurga dal frantoio durante la macinazione delle olive. Nel glossario da me pubblicato in appendice di «Rizolos Cristallinos» riportavo il detto: «giughes in conca s'abba crasta» rivolto a qualcuno che viene considerato un cervellotico o di poco senno. E soggiungevo: «Crasta riteniamo che sia apocope di crastada, cioè sterile: per cui il liquame che cola dal frantoio non è che il rifiuto di decomposizione dell'olio, la feccia. Che s'abba crasta sia lo spurgo dell'olio che cola dal frantoio non c'è alcun dubbio; debbo però ricredermi da quell'apocope di «crastada» al lume della definizione tecnica di abba crasta che mi ha fornito l'amico sassarese Aldo Dessì, studioso di botanica, oltre che attento indagatore di altri interessi culturali. Si consideri che il frantoio antico, usato per la macinazione delle ulive, era costruito stabilmente sopra un piano roccioso, la cui base formava un recipiente denominato (in sassarese ed in logudorese) 9 chirriottu, entro il quale fluiva l'acqua di vegetazione mista ad olio. E poiché veniva gettata continuamente dell'acqua caldissima sopra i fiscoli incolonnati per la pressione (maggiormente alla fine di ogni torchiatura), per rendere più rapida la separazione dell'olio di superficie dall'acqua di vegetazione, si otteneva la raccolta di tutto il liquido entro il recipiente roccioso, cioè il chirriottu, procedendo poi in questa tecnica: ivi depositato il liquido della torchiatura, si raccoglieva in superficie, usando delicatamente una scodella, l'olio che vi affiorava; di modo che rimaneva nel chirriottu solamente l'acqua un po' oleosa, che successivamente veniva depurata in un altro recipiente roccioso, molto più ampio del primo, chiamato inferno, dove l'olio affiorava in minore quantità, mentre l'acqua pura di vegetazione veniva scaricata nelle fogne. Quest'acqua così depurata è chiamata abba crasta. L'aggettivo «crasta» sarebbe pertanto derivato dal crastu (roccia) di cui erano formati i due recipienti (il chirriottu e l'inferno), nei quali veniva depositato il liquido del frantoio attraverso il processo di depurazione dell'olio dall'acqua di vegetazione. ABBERCHEDDARE - E' voce che lo Spano non registra nel suo prezioso vocabolario. Antonio Sanna in «Note Sardologudoresi », la ricava dalla parlata viva di Bonorva nel significato di «rimpinzare, detto specialmente di bevande». Qui è bene subito precisare che abbercheddare, nell'accezione comune di quella parlata, è usato per satollarsi, rimpinzarsi non soltanto o specialmente di bevande, ma di cibi di ogni natura; come pure abbudegàre. E per questo apprezzato studioso della lingua sarda «le due voci logudoresi appaiono formate, rispettivamente, da cella (ad-per-cella+are) e su apotheca (apotheca + are)» e le considera «due metafore tratte dalla terminologia della casa romana e perciò molto antiche». Il Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo riprende in esame il verbo abbercheddare e spiega: «sbavazzare, riempirsi lo stomaco di bevande». (Ma non soltanto di bevande, come abbiamo precisato). Sarebbe, secondo il Sanna, un derivato da CELLA (adper-cella + are). 10 Questo verbo e abbudegàre (-» budda) sarebbero sempre, secondo questo autore, due metafore tratte dalla terminologia della casa romana e perciò molto antiche. E' appena necessario fare osservare che una formazione AD-PER-CELLA + are è, dal punto di vista formale, semplicemente impensabile. Noi non crediamo nell'antichità di questa parola, né di abbudegàre, ma vediamo nel verbo bonorvese un derivato da porcheddu, cioè comportarsi come un porco». Così il Wagner. Chi scrive non si sente di sfiorare minimamente l'autorità del Wagner quando osserva che «dal punto di vista formale» la derivazione del vocabolo strutturata in ADPER-CELLA + are «è semplicemente impensabile». Però umilmente si sente di non poter accogliere la sua opinione nel vedere «nel verbo bonorvese un derivato da porcheddu». Perché gode del suffragio diretto, in questo suo dissentire, dalla lingua viva dei bonorvesi, che è pure la sua lingua di latte, appresa nobilitata dal «miglior fabbro parlar materno» — per dirla con l'Alighieri — che fu il Paolo Mossa. Che da porcheddu potesse derivare abbercheddare (se mai più naturalmente deriverebbe apporcheddare), è un dubbio che non si dissipa facilmente anche dal «punto di vista formale». Perché abbercheddare deriva semplicemente da berchedda, che è l'uccellino ancora implume nel nido. Quando la madre degli uccellini implumi, tornata ai suoi piccini col pieno di larve e di vermi, li alimenta fino a rimpinzare il gozzo; e questa azione è comunemente chiamata abbercheddare. Chi scrive, da fanciullo, è salito (oh, quante volte!) in cima agli alberi più protesi al cielo per snidare uccellini e prende piene mani sas bercheddas. Non è un dubbio, dunque, ma assoluta certezza. E per analogia figurata si dice abbercheddadu un beone o crapulone che si è riempito fino al gozzo... Come si vede la giusta spiegazione è... l'uovo di Colombo. Sentiamo ancora il Wagner. Alla voce chedda, sempre suo dizionario etimologico, cita lo Spano: anche una quantità di frutta e di altre cose», oltre, cioè, a significare un piccolo branco di animali (di pecore, capre, suini ecc.) come il vocabolo è comunemente inteso in tutta l'area del logudorese. 11 Nelle parlate montagnine, al centro dell'Isola, si dice grustu: unu grustu de arveghes o berbeghes, che è qualcosa meno o frazione del masone). E poi, continua il Wagner: «riferito a persona : «prossa kella dessos Murtas d'Enene... ca los chereat a sservos tottu». Ma più precisamente riferito ad animali «Dande .XL. maiales e II verveghes pro porcu a parthires uniskis cun CHELLA sua». Ora vien da chiedere: se CHELLA delle citate carte antiche sta per chedda, come risulta chiaramente, ed il passaggio dal più antico CELLA appare pensabile, non è il caso di riesaminare la derivazione formulata dal Sanna per abbercheddare o di proporne un'altra? Non potrebbe considerarsi apprezzabile l'opinione che abbercheddare fosse in antico l'azione di saziare, rimpinzare sa chedda de sos puzoneddos? La soluzione dell'enigma non consiste più nello stabilire da quale parola derivi, nell'ambito del logudorese, abbercheddare, perché abbiamo visto come risulti con certezza un denominale di berchèdda, ma quella di cercare l'etimo di quest'ultimo vocabolo. E questo è compito dei viventi studiosi e cultori di linguistica sarda, giacché il Wagner, il più qualificato dei nostri tempi, non può dall'al di là più intervenire sull'argomento. 12 ALTRI ENIGMI E PECULIARI ASPETTI DELLA LINGUA SARDA AJUBORE - Significa gioia grande, talvolta con turbamento. Per Antonio Sanna in «Note sardo-logudoresi»: «gioia grande mista a timore; voce ormai rara». II poeta Paolo Mossa in «Su lamentu», nel rievocare le gioie amorose condivise con la sua adorabile Gisella: «Ahimè, cant'ajubore! / Cantos teneros carignos! ». E' un ajubore sentito nell'intimo trasporto. Però in «Sa mariposa», nel descrivere la falena che, svolazzando intorno al lume or s'avvicina ed or se ne allontana per ritornarvi sempre piti attratta dalla luce, fino a bruciarsi un'ala e rotolarsi per terra, da cui il Poeta la solleva e poi la vede d'un tratto pigliare nuovamente il volo dalla palma della sua mano verso la finestra aperta: «A bolos tales, a vista simile / su coro mi riesit de ajubore», in cui è veramente espressa una «gioia mista a timore». Quindi è da ritenere che ajubore sia l'esito di aju più pore, corrispondente, cioè, a quiete gioiosa dell'animo mista a timore (che è il significato del secondo elemento, se si tien conto che ornine de pore vuol dire uomo che incute timore). ALAPÌNNA - Rifugio naturale o riparo occasionale di campagnoli in tempo piovoso o nevoso, costituito per lo più da una parete rocciosa con cappellaccio sporgente, a riparo del quale trovano rifugio pecore, buoi ed altre bestie, oltre che delle per sone. Spesso i pastori ed i contadini trovano un riparo occasionale dalla pioggia e dal vento mettendosi a ridosso di un muro alto e ben assiepato, come in alapinna: a pinna a bentu o de sa fiocca. L'esito di alapinna è pertanto ala più pinna, come voler significare un'ala di riparo. Da pinna (riparo) derivano pinnettu e pinnetta (capanne rurali). ANNUIADORZU - E' la rotula del ginocchio, anche gomito, che si piega come per rotella. In logudorese è frequente l'espressione: «Mi faghene male tottu sos annujadorzos». Voce in disuso è il verbo annujare, per piegare meccanicamente. E’ da ritenere che 13 annujadorzu, sostantivo m., sia un deverbale, appunto da annujare. Né del verbo né del sostantivo fa cenno lo Spano e neppure il Wagner. Per annujare è proponibile la derivazione da AMMUJARE scomposto in A + mujare che, per aferesi del prefisso a ci dà il verbo oggi in uso nel significato di piegare. In questo caso mujare sarebbe il continuatore moderno di annujare. ASSUSSEGÀRE - E' voce spagnola: asosegar. Sinonimo asseliare, significa calmare, star tranquillo, acquietarsi. Mia madre, richiamandomi da ragazzetto per la mia irrequietezza, mi diceva spesso: «Elio assussegadi a una 'olta!». E Sebasiano Satta in «Don Chisciotte»: «... e da hidalgo asosegado / Divenne, o sogno, caballero andante...». ATTRASETTARE - Lo Spano ignora questo verbo logudorese, il Wagner lo ha raccolto. E' un denominale di trasettu (abbattimento, mortificazione). Il Mossa in «Sos deunzos»: «Troppu troppu bos hana attrasettadu custos deunzos a panza piena». E annota nel suo manoscritto: «Attrasettare, estenuare, abbattere, mortificare». L'etimo di attrasettu è da ricercare. BOZZIGA - Ero ancora giovanetto quando per la prima volta mi sono interessato di capirne il significato. Tuttora è in uso a Bonorva la locuzione: «Non bidet mancu sa bòzziga» (per uno che è cieco del tutto). Per quante indagini avessi svolto da giovane, anche interrogando persone anziane da qualche decennio a questa parte, non ero riuscito nello scopo. Nessuno mi aveva saputo dire che cosa fosse «sa bòzziga». Tutti, però, mi avevano spiegato concordemente che il «non bider mancu sa bòzziga» significava non veder proprio niente. Uno degli anziani che avevo interpellato, che parlava il logudorese schietto e conosceva molte voci arcaiche, azzardò questa spiegazione: «bòzziga = bozzigòne (per accrescitivo) e buccicòne in campidanese, dato sugli occhi (e chi non lo vede est zegu pàbaru)». (Pàbaru, aggettivo appropriato per l'uovo mal concepito, senza 14 guscio e avvolto da una sottile membrana bianca, simile alla cornea di molti ciechi). Su questa semplicistica e lepida spiegazione verrebbe ora da ridere, ma anche da ripensarci, poiché son venuto a sapere che cosa in concreto fosse anticamente la bòzziga, come per addentellato di similitudine. Il vocab. bòzziga, ignorato dai nostri vocabolaristi, non è più un enigma da sciogliere. In seguito a nuove indagini da me svolte alcuni anni orsono, ne ho avuto l'esatta spiegazione dall'amico poeta Raimondo Piras di Villanova Monteleone. Nella parlata di quel paese (conservativa come di un'isola linguistica logudorese) il termine bòzziga è ancora vivo e significa una pallottolina di carta o di straccio (può essere anche una mandorla o una noce) di cui le massaie si servono per iniziare il gomitolo di un filato lino, di lana o di cotone: a mano a mano che i giri del filato avvolgono, incrociandosi ed infittendosi in tutti i sensi, nocciolo, occultato al centro, finisce col non vedersi più, stessa guisa come non si vede dall'esterno di una pesca il nocciolo. Per cui il non vedere manco una bòzziga è come essere ciechi del tutto o creduti tali. Ora che l'enigma della frase idiomatica bonorvese ha avuto la giusta spiegazione l'oracolo di Villanova Monteleone, a me non resta che opinare (pestando luovo di Colombo) che l'arcaica bòzzica equivalga la moderna boccia. CONNOU - Cordoglio, afflizione, angoscia. «Ohi, coro pienu de connou!» (da un'antica canzone popolare). Ed il Mossa in «Sa cazza a ischeliu»: «prò te in grave perdita e connou!» per te in grave perdita e afflizione. Tanto il Wagner come lo Spano hanno ignorato il vocabolo connou, l'etimo del quale è da ricercare come un'ago nel pagliaio. CULVENU - In logudorese significa custodia, serbo, ritiro, Ponner in culvènu è l'atto di ritirare, custodire, conservare, riservare, nascondere una cosa. Culvènu indica anche il posto o il luogo in cui si conserva una cosa, si nasconde anche un uomo. Es «Su nuraghe fìt su culvènu sou (o de sa fura sua)». In senso figurato: culvenare in sas intragnas, per custodire o conservare nell'animo. Lo Spano 15 ignora culvènu e culvenare; neppure il Wagner ha registrato queste voci. Anche di questo sostantivo non si conosce l'etimo. GALIU - E' aggettivo usato a Bonorva dagli anziani per significare un oggetto di scarsa misura, non adeguato all'uso o al congegno cui è destinato. Per es.: è galìu o galìa un tappo troppo piccolo per il collo di una bottiglia; una vite di scarsa sezione rispetto ad un dado; una pietra o un mattone per il buco che si vuol tappare; e così via. Sinonimo di galìu è menguante. Lo Spano non raccoglie questa voce ancora viva e certamente antica. Neppure il Wagner. E' sconosciuto il suo etimo. GHIU - Leggendo il saggio introduttivo sapientemente svolto da Gonario Pinna, l'illustre penalista nuorese e chiaro umanista, nel presentare la «Antologia dei poeti dialettali nuoresi» da lui curata e commentata, rileviamo che il Pinna si è imbattuto in un vocabolo a lui completamente ignoto e che ha riportato da una poesia del nuorese Nicola Daga. E' il vocabolo Ghiu che il saggista non ha riscontrato nei vocaboli dello Spano e del Porru e neppure nel Dizionario Etimologico Sardo del Wagner. Nei versi riportati il poeta «rimprovera ad un giovane il proposito di sposare una donna resa incinta da altri»; Asiu nd'has isseperta isseperta como chi b'hat in mesu atteru GHIU. Ed alle prese con ghiu il Pinna chiede lume a degli anziani. Taluno di questi gli «ha tradotto ghiu per seme», tal'altro lo «ha tradotto per nocciolo», ma il più vecchio dei nuoresi» da lui interpellati lo «ha tradotto invece per sterco» spiegandogli «che un animale lascia nel pascolo il segno della sua presenza nello sterco, così il giovane temerario che vuol sposare una donna impedia, non può sceverare l'autore della gravidanza della donna perché "c'è in mezzo altro sterco", vi ha pascolato altro bestiame». La metaforica interpretazione del «più vecchio dei nuoresi» dev'essere sembrata a Gonario Pinna, oltre che chiave di similitudine, più simpatica e poetica, e l'ha senz'ai accolta nella traduzione in italiano che ha fatto 16 dei versi DEL Daga qui sopra citati. Sterco e non seme, dunque. Ma linguisticaraente non regge. Perché è proprio seme la traduzione ghiu, nella sua accezione comune. Se il Pinna, consultante Spano, avesse avuto l'intuizione (che è venuta a chi scrive) cercare la voce logudorese CHIÙ = GHIU nuorese per passaggio della c dura in g aspra avrebbe subito appreso da Spano che chiù vuol significare seme (e non sterco), come Log. ed al Sett. è risaputo: «midollo, nocciolo». A Tonara termine muta in giù (per le noci, noccioline, mandorle se guscio, con cui si confezionano i torroni). Nelle espressioni consuete dell'area logudorese si ha dalla viva parlata: su chiù sa mendula, de sa nizzola, de sa pruna ecc. In logudorese su chiù rè il nocciolo, che viene chiamato ossu (s'ossu de su pessighe su barracocco ecc.), ma ciò che sta dentro il nocciolo, cioè seme vero e proprio. In campidanese (vedi il Porru) chiù sta pisu: su pisu 'e su prèssiu ecc., anche delle leguminose, prese le selvatiche (che, invece, nel logudorese viene chiamato séme-E' tipicamente lepido nell'umorismo campidanese il detto: «fa pisu» per indicare un figlio bastardo. Seme, dunque, e non sterco. Ma il Pinna, tutto preso dalla metafora del «più vecchio», l'ha adottata. De gustibus... Eppure seme è più poetico di sterco (che così a crudo non soddisfa neppure il palato). Ed anche per un altro gusto: che traducendo «c'è in mezzo altro sterco» appare implicito che quello verrà dopo, cioè il seme del giovane che vuol sposare la donna incinta da altri, sia pure dello sterco, mentre sarà sempre buon «seme d'Adamo». Per noi ha pienamente ragione quel «taluno» dei nuoresi che ha tradotto ghiu per seme. GIANNITTARE - Significa l'abbaiare del cane in modo lamentevole, quasi piagnucolando. E' verbo diffuso nell'area del logudorese Molto comune nel mandamento di Bonorva, in uso particolarmente in bocca ai pastori e contadini. Anche usato il sostantivo giannìttu, per guaito. Ciò fa ritenere che anche il sostantivo Sardo abbia, come per l'italiano, la matrice in vagitus. Lo Spano non ne fa cenno (dobbiamo ancora lamentarci) e neppure il Wagner. Pietro Casu che ebbe la parlata logudorese settentrionale, 17 nella poesia «Primos passos» ne dà un chiaro esempio descrivendo un bimbo: «Cun una canna presa s'infusilate faghet giannìttare su catteddu». E' d'uopo risparmiare altre esemplificazioni per necessità di spazio. GRUSARE - In logudorese sta per amareggiare, intristire, intisichire. Modi di dire: Ah, comente ses grusadu! Mi so grusende cun tantos pensamentos. Il Mossa nella poesia «Su disterru» (l'esilio): «In breve hat a finire su disterru chi nos grusat sas dies de sa vida». Lo Spano non registra il verbo grusare; neppure il Wagner nel suo Dizionario Etimologico Sardo. Ancora il Mossa in «Su cazzadore». «Non mi conto pius prò cazzadore ca sa fortuna in tottu m'hat grusadu». E annota in un suo manoscritto: Grusare, deprimere, avvilire. Ma qual'è il suo etimo? ILLIERARE - E' pacifico che illieràre = liberare. Lo spano: «da levis o liber». E' voce viva in Logudoro per indicare il partorire di una donna (mai di un animale, per lo sgravarsi quale è appropriato il verbo anzàre). Il Wagner nel DES, alla voce illiberare cita «illieràre logudorese (Cuglieri: illioràre; illiorai! campidanese (Sulcis) partorire = liberare. E' pensabile che il verbo illieràre abbia qualche relazione col vocabolo lieru = libero. In Logudoro lieru è voce ancora usata dagli anziani. Omine lieru = uomo libero, senza impacci, immune da imposizioni, non censurato da alcuno, quindi anche franco e leale. Questi significati traslati sono da ritenere derivati in origine, dall'uomo medioevale di libera condizione, non servile. D'altro canto in Logudoro si diceva dagli anziani (e forse si dice ancora): «est liera» per una donna che ha partorito da poco, cioè libera perchè si è sgravata. Oggi è più corrente il «s'est illierada». 18 INZOTTU - Tace lo Spano ed anche il Wagner su questo termine logudorese. Né lo riporta il Porru che abbiamo consultato nel sospetto che fosse voce trasmigrata dal campidanese, come vedremo dopo per il vocabolo minzìdiu (bugia, menzogna). A Bonorva inzottu sussiste, in bocca degli anziani, nel significato di fatica imprevista, di pena causata da imbroglio, da un affronto immeritato. Un modo di dire: già mi l'has dadu s'inzottu. A Nughedu San Nicolò, invece, è usato in senso di rimprovero, di rimbrotto E la sua derivazione? Potrebbe essere una variante di azzottu (per sostituzione del prefisso in con a e raddoppiando la consonante z). Azzottu, infatti, è registrato dallo Spano nel significato di «rimprovero, rimproccio», indicandone l'uso a Posada, proprio nel senso di inzottu usato a Nughedu. ISCULPÌRE - Lo Spano: «scolpire». (Sic et simpliciter). Registra, per contro, iscurpire per verbon. «logudorese ottenere, conseguire ». Il Wagner nel Dizionario Etimologico Sardo fa una lunga discussione su isculpire citando passi di carte antiche; per il logudorese mod. iskurpire cita lo Spano; «iskrùffere (Marghine e Bitti)»; per skruffìri (campidanese) cita il Porru, nel significato di ottenere (p. es. un impiego) e skruffirisì per difendersi, liberarsi; ed il Garau in «Campanas »: «sa di chi m'ia podi scruffì una parigh' 'e soddus» (in senso di guadagnare un po' di soldi). Infine ritiene di osservare, in parentesi, che la derivazione da CULPA, proposta in Vox Rom. V 147, «è meno probabile». Su questo punto dissentiamo dall'illustre studioso. Chi scrive ritiene, invece, che il Wagner non abbia approfondito né esaurito lo studio su isculpire, per scolpare, pagare o scontare le colpe, attraverso questi significati ancora in uso e validi nella parlata logudorese. Infatti ancora oggi in Logudoro si dice: «Già nde l'hat a isculpire a innanti 'e Deu su male ch'hat fattu a mie»; «peccadu 'e babbu nde l'isculpit su fizu»; e simili. Allo stesso modo il poeta Bachisio Canu di Bonnanaro, nella poesia «It'hat cun megus comare», così esprimeva in una strofe: «Pius boltas la cretesi una nue passizera; 19 e in nessuna manera cun comare m'isculpesi». Non occorre indugiarsi per dimostrare la derivazione isculpìre (per scolpare) da CULPA, che fu d'altronde proposta non a torto in Vox Rom. ISPAJU - Il Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo, registra e spiega: «logudorese per meraviglia, contentezza, giubilo, esultanza: "Ca mi faghet ispaju", Bellorini, no 31 (Nuoro). "Caglia, caglia. Ti 'ogo da ingannu / non b'hat bisonzu chi fettas ispaju". (Pietro Casu in poesia manoscritta). "Il Casu porta per il logudorese settentrionale anche ispraju per godimento, sollazzo, sollievo, con r ascetizio". «Spaju campidanese (Sarrabus) = spasso» per lo Spano. Il Wagner opina che ispaju probabilmente = catalano espai «spazio, che fra fra l’altro ha anche il senso di descans, cesacciò de traball, de la preoccupaciò; espoyar-se significa a Maiorca "solazar-se (Dicc. Aguilò III 294), distruere 's, reposar de treball». Nell'ozierese ispaju sta per allegrezza, euforia, sollazzo. Un ispaju chi tenes; chissà chi t'ispajes in sa festa; razza de ispaju chi has hapidu (di chi si ride ironicamente del male altrui). Da uno di questi modi di dire si rivela il denominale ispajare. Ci pare di poter concludere che ispaju = ispassu. LIBIDE - E' vocabolo enigmantico anche per i cultori del sardo e parrebbe inspiegabile etimologicamente. Lo Spano lo ignora e non lo registra neppure il Wagner. Eppure è conosciuto a Nughedu San Nicolò e riteniamo in tutta l'area delle parlate affini, come Ozieri, Ittireddu, Pattada, Bantine ecc. In quell'area è voce intesa per lèbiu (leggero) di stomaco o di testa. «Mi sento unu pagu libide» — si dice ancora oggi a Nughedu per significare di essere un po' alleggerito dalla febbre. In «Note lessicali sarde», pubblicate in «Archivio Storico Sardo» (Vol. VII, 1911) dal Prof. Giovanni Campus, pattadese, è riportato il termine lìbides ed il detto «fora 'e libides inteso per parlar senza capo né coda». E fa derivare lìbides da lìmites, per lo scambio fra b ed m 20 intervocalici. Il significato di lìbides per limite datoci dal Campus parrebbe non concordare col significato di lìbide inteso oggi a Nughedu. Ma se si considera che a Nughedu è vivo anche il modo di dire ses arende e libide, cioè in superficie, non in limite di profondità, è da ritenere che, per evoluzione semantica, siasi giunti dal lìbides per lìmite del Campus nel pattadese antico al lìbide seriore di Nughedu. LUDRAU - Questo termine, nell'intento di sviscerarlo linguisticamente è apparso per tanti secoli col volto della sfinge. Uno studioso delle carte sarde antiche — come ci riferisce Antonio Sanna — precisamente il Bonazzi «aveva riconosciuto la voce latina bolitrauu del Condaghe San Pietro Di Silki 192, 309, etimologia accettata dal Meyer-Luebke in REW 9440 e ulteriormente confermata da un passo del Condaghe San Trullas 290 "assu gulutrau de su rivu"». Il Sanna riporta subito dopo una citazione in tedesco del Wagner, la quale termina col ritenere che «oggi il vocabolo pare estinto». Ma non è affatto estinto nel Logudoro. Ed il Sanna lo ha appreso anzitutto dalla parlata viva dei bonorvesi. Ma ecco il volto della sfinge allo scoperto: è lo stesso Sanna a rivelarcelo con felice intuizione e con acume. Nelle citate sue Note «sardologudoresi» spiega: ludràu, m., pozzanghera, panno, fanghiglia». E' il continuatore moderno di VOLUTABRUM. Indi l'esito: «La viniziale latina che passa b- mobile nel 1ogudorese ha permesso di arrivare a ulutràu, uludràu, e per l'effetto dell'articolo maschile, da s'uludràu a su ludràu». Il Wagner, nel Dizionario Etimologico Sardo, dopo aver dissertato alla voce «LUTU (Bitti); logudorese Ludu o ludru nuor., su ludràku, ludràgu, illudriare logudorese» per «avvoltarsi nel fango» ed altri derivati, cita lo Spano in ludràu (1og.) e prosegue: «Ma ultimamente ha avanzato un'altra spiegazione il Sanna, Studi Sardi. XII - X III , parte II , p. 436; egli sostiene che ludràu corrisponde al gulutràu del Condaghe San Trullas, 209 ed al bolitràvu del CSP = volutàbrum attraverso ulutràu, uludràu, con l’articolo s'uludràu e finalmente su ludràu. Ritengo questa spiegazione buona». Infine il Wagner cita il Pittau 21 che contesta la validità della spiegazione data dal Sanna in quanto l'ulutrau non si potrebbe applicare — secondo lui — al bulutrabu nuorese. Ma il Wagner gli dimostra con chiarezza che ha torto. A conclusione di questa disamina fatta da diversi studiosi del sardo, non possiamo non essere convinti e non compiaciuti della rivelazione del vero volto della sfinge per bocca dell'colo in Antonio Sanna. MINZIDIU - E' voce usata dal Mossa, quindi logudorese, sebbene lo Spano non la riporti nel suo vocabolario. Nella poesia Su disterru (l'esilio) il cantore di Gisella, rivolto a «Lene» (Elena), giovinetta che amò e che fu allontanata da Bonorva a suo dispetto, così sfogava l'ira sua: «Sos infames minzidios atterra / chi s'imbidia anzena hat macchinadu», significando minzìdios per menzogne calunniose. Lo Spano registra, invece, mincìdiu (mer.) per menzogna, bubbola; ed il Porru lo dà per lo stesso significato. Qui è evidente che Io Spano ha preso il termine dal Porru, il quale aveva già pubblicato il suo vocabolario campidanese prima che lo Spano si accingesse a dar corpo alle sue schede su tutti i dialetti dell'isola. C'è da rilevare da una così concomitanza dei due termini, rassomiglianti per struttura e significato, che mincìdiu sia trasmigrato dal Campidano verso il nord prendendo in minzìdiu la caratteristica dello pronuncia logudorese. Questo fenomeno dello trasmigarzione nel lessico sardo non è isolato, ma è ricorrente in tutte le parlate circonvicine o comunque influenzate reciprocamente nei rapporti economici e sociali. Per citare solo un esempio: l'aggettivo asùlu, per azzurro, è usato a Tonara e nella Barbagia di Beivi, come il campidanese asùlu. Il Porru, infatti, riporta questo termine nel significato di azzurro e lo fa derivare dallo spagnolo azul. E questo trasmigrare di asùlu dal Campidano in Barbagia ben si spiega col trasmigrare dei pastori barbarioini con le loro gregge transumanti al sud, nella rigida stagione invernale, e col calare nelle stesse direzioni di quegli artigiani rurali, fattisi bertuleris, per smerciare, oltre le castagne — come cantò Montanaru — i loro caratteristici utensili di legno duro, per lo più truddas e tazeris. 22 VOCI IGNORATE O MAL NOTE Riteniamo clie possa interessare ancora la dissertazione che stiamo modestamente svolgendo su enigmi ed aspetti peculiari della lingua sarda. Per cui ne continuiamo le esemplificazioni, in remissivo eloquio, alfine di colmare delle immancabili lacune dei nostri vocabolaristi e di integrare o emendare delle loro pur dotte definizioni contando sulla esperienza che ci proviene dalle vive parlate logudoresi ed affini. ABBISCARZARE - E' verbo logudorese, della viva parlata di Nughedu San Nicolò, e significa riempirsi (di cibi o di bevande) fino al gozzo; rimpinzarsi, ingozzarsi, satollarsi. E' dunque sinonimo di abbercheddare, la cui voce abbiamo trattato addimostrando chiaramente come sia un denominale derivato da berchèdda (l'uccellino implume nel nido) ed esprime l'azione che svolge l'uccello madre nel rimpinzare col suo becco provvisto di vermi e larve i gozzo dei suoi nati. A Nughedu gli uccellini implumi vengono chiamati ranuccìas, perché sono simili a ranuncoli; mentre il termine berchèdda vi è ignoto. Il vocabolo abbiscarzàre è ignorato dai nostri vocabolaristi, né alcuna menzione si riscontra di esso termine (per quanto ci è dato frugare) in pubblicazioni sulla linguistica sarda. Questo verbo nughedese rende ancor più di abbercheddare e del sinonimo abbudegàre l'azione di nutrire col becco (biccu) della madre l'uccellino ancora implume fino a rimpinzarne il gozzo (iscàr-zu). Presenta da sé la viva immagine del becco che s'introduce fino al gozzo: abbiscarzàre si forma, per l'appunto, da BICCU + ISCARZU nella sua giustapposizione, che ama (come nel comportamento di altre formazioni similari) aggiungere il prefisso a- col raddoppiam. della consonante che segue, più l'uscita in -are. ALAPINNA - «Centr., riparo contra il vento (Nuoro); alabìnna logudorese, ricovero provvisorio, ridosso. Sarà giustapposizione di ALA + PINNA (pinna). La rassomiglianza con lo spagnolo alpende, 23 portoghese alprende, langued. alapen, che designano una specie di rimessa (spagnolo cobertizio); francese, appentis, per i quali vedi ora Corominas, Dicc. I , 165, sarà fortuita in quanto la voce sarda si usa non per un capannone o simile, ma per un ricovero naturale, come p. es. una sporgenza di roccia che permetta di ripararsi dal cattivo tempo e non ha certamente a che vedere con PENDERE». Così il Wagner nel suo Dizionario Etimologico Sardo, che ci ha dato un'esatta definizione di alapìnna. Che le rassomiglianze del genere citate dallo spagnolo, dal portoghese, dalla lang. E dal francese, siano del tutto fortuite con la voce sarda, non c'è alcun dubbio. Quante altre rassomiglianze non si sono fortuitamente riscontrate per altre voci, perfino della toponomastica? In seguito daremo tutto un florilegio di parole rassomiglianti fortuitamente a voci sarde che degli autori ingegnosi quanto certosini, ed anche bizzarri, sono andati a pescare nella toponomastica di paesi sperduti fin nel lontanissimo centro dell'Asia e perfino (con abbondanza di citazioni e di ardite congetture) dal lessico dell'antico nordico, del danese, del gotico, dell'islandese, del norvegese, dello svedese, dello scandinavo ed oltre, dal quale sono stati pazientemente staccati prefissi e suffissi per innestarli ad una lunga serie di vocaboli sardi, ed il tutto nell'intento accalorato di dimostrare, con malaccorta ingenuità e anche a dispetto della storia, la presenza dei vikinghi in Sardegna nell'alto Medio Evo. Lo Spano non riporta alapìnna; ma alla voce pinna spiega: «esser in pinna, al ridosso asilo, protezione». Questa definizione è pure esatta, anche se non designa ed esaurisce la natura dell'asilo ecc., come ampiamente ha fatto il Wagner per alapìnna. Il Can. Spano, studioso dell'ebraico e di altre lingue orientah, ci dà la derivazione di pinna dall'ebr. pinha (antemurale). Ed il Wagner, che pur lo aveva consultato, non lo smentisce, ma non si pronuncia sull'etimo di pinna. Evidentemente, nonostante le sue prevenzioni contro il filoebraismo dello Spano, ha ritenuto non improbabile la derivazione di pinna dal pinha ebraico. A proposito di pinna c'è da segnalare qualche modo di dire (dei pastori e contadini) tuttora in uso e ricorrente: est in pinna a bentu, s'est postu in pinna a sa tramontana (o a sa fiocca) per indicare di 24 uno che si è messo un po' a riparo dell'inclemenza del tempo. E questo riparo è occasionale in una campagna; non è esclusivamente s'alapìnna, ma spesso è un muricciolo hurdu (di pietre collegate senza malta, bastardo) od una siepe; e chi vi si ripara, per lo pivi accocolato, è esposto alla parte contraria del vento o della tormenta. Da pinna, oltre la giustapposizione di ALA + PINNA, è derivata la voce pinnettu e pinnetta (abituri): l'uno in forma circolare costruito in pietre grezze senza malta e con tetto di frasche intramezzate con canne o steli di granoturco o di biodo, rametti di tamerice e simili; l'altra in forma quadrangolare, costruita in pietre collegate o no a maha, con tetto a uno o due spioventi, pure di frasche ecc. o anche coperto con tegole. L'uso del pinnettu e della pinnetta è quello del riparo e dell'abitazione del pastore e del contadino. (Pinnettu e pinnetta, resi al diminutivo di pinna, si devono scrivere con la doppia tt — lo sottolineiamo en passant — e non con una sola come molti scrivono, come hanno scritto anche delle persone colte, in pubblicazioni che interessano la Sardegna, orecchiando con l'it. pineta). Lo Spano registra pure la voce pinnacuzza, per «muro a cresta, che sporge». E' da ritenere che questa voce, oggi in disuso, fosse in origine pinna curza, cioè corta, o pinna accuzza, come fosse acuta, affilata, quasi una alapinna di piccole dimensioni. Sulla grafia di alabinna, infine, dobbiamo emendare l'informazione che ebbe il Wagner per questa voce logudorese, in quanto lo scadere della labiale p in b, pure lab., è semplicemente dovuto al modo di pronunciare la p levigata in logudorese, da sembrare b, così come si pronuncia ala pinta, fae punta (fava bacata), col suono fievole della p. Si deve scrivere alapinna, dunque, in logudorese come nei dialetti centrali. ATTUTINARE - E' verbo logudorese, «farsi folto (detto dell'erba); fig. affollarsi, aggrupparsi; sostantivo attutìna, zizzania, erba parassita e tutto quello che soffoca il grano». (Spano per Cuglieri e confermato nel paese); fig. «affollamento, confusione, scompiglio». Così il Wagner nella spiegazione data nel suo Dizionario Etimologico Sardo. Il verbo attutinàre, anche se sussiste ancora con 25 questo significato a Cuglieri, è certamente in disuso nell'area generale delle parlate logudoresi, nelle quali vive, però, nel significato di dar fastidio, fare una provocazione, insolentire una persona per suscitarne una reazione. «Proite l'attutinas? S'est boltadu che pìbera (si è rivoltato come una vipera) ca l'hat attutinadu»: sono modi di dire ricorrenti. Riteniamo che attutinàre sia un denominale, derivato da tutìnas, sostantivo plurale ancora vivo nella parlata di Dorgali e che indica per la gente di campagna gli animali novici in genere. Tutìnas non è riportato da alcun vocabolario sardo. E il suo etimo? Lo stesso Wagner non lo trova per attutìna e se lo chiede con un punto interrogativo. Lo Spano, riportato dal Wagner nella spiegazione del cuglieritano attutìna, ritiene che questo termine sia corrotto da mattutìnu e da bàttere. Ma questa derivazione è tutt'altro che convincente, specie se la stessa voce la si raffronta per significato al nome collettivo dorgalese tutìnas. Ed è significativo che il Wagner non l'abbia raccolta, anzi l'abbia voluta ignorare. Da quale sfondo ancestrale della stirpe derivano tutìnas e attutìna? LIBRISCU - Aggettivo logudorese che significa furbo, astuto. Il termine è conosciuto nei paesi dell'Anglona ed in altre contrade. Noi l'abbiamo depreso da una poesia di Giorgio Pinna, di Bulzi che narra metaforicamente di unu zirriòlu (un pipistrello) che «maccu maccu o libriscu / fit chirchende sa tana in figu friscu...». Il pipistrello nel cercarsi una nuova tana, per l'appunto in figu friscu, faceva il finto tonto o l'astuto. Riteniamo che libriscu derivi da alibrìscu (giustapposizione di ALA + BRISCU), cioè dalle ali accorte e svelte con cui il pipistrello volteggia con singolare abilità scansando qualunque ostacolo contro cui pare debba cozzare a brevissima distanza. L'aggettivo Si è poi esteso ad altri animali ed anche alle persone che si ritengono dotate di astuzia o furberia, di sveltezza nel concepire e commettere inganni o raggiri. Lo Spano non riporta alibrìscu né libriscu nel suo vocab.; ma alla voce brìsca (briscola) per «specie di giuoco di carte» ci dà in senso figurato il sottinteso aggettivo m. brisco, per «furbo, astuto» e facendo 26 derivare brìsca dal francese, evidentemente da brisque. Come nota aggiuntiva e per maggiore edificazione della sua etimologia riprendiamo anche la voce LUDRAU - Oltre al toponimo citato Su buludràu esistente nei pressi della strada che da Macomer conduce a San Leonardo, abbiamo da segnalare un altro toponimo legato a quella voce antica. Nell'anno 1834, quando venne svolto il catasto agrario in Sardegna, per la divisione del territorio di Neoneli e quello di Austi s vennero indicate le località del relativo confine che si estendeva «fìntas assu ludragu mannu de Fresaghes». Dobbiamo alla cortesia dell'amico Prof. Danilo Murgia, nativo di Neoneli, già preside dell' Ist. Magistrale Stat. «De Sanctis» di Cagliari ed ora del Liceo Scientifico «Pacinotti», la precisa indicazione del toponimo Su ludràgu de Fresaghes. Il passo testuale di quella indicazione di limite territoriale, del tutto simile al passo del Condaghe San Trullas, 290, «assu gulutrau de su rivu», ci proietta un'altra luce sulla ramificata generazione data dal latino volutàbrum. Perché noi riteniamo di poter modestamente affermare che ludràgu, perpetuato nel toponimo di Neoneli e di Austis, sia parente stretto del logudorese ludràu e discendente diretto del bulutràbu nuor. assieme a ludràku, così come dal bolutràvu del Condaghe San Pietro Di Silki, 192, 309, è disceso il moderno ludràu logudorese Attraverso l'esito che da volutàbrum ha felicemente dimostrato Antonio Sanna. PINNADELLU - E' un amuleto di pietra nera che nel Logudoro ed in regioni finitime fino a non molto tempo fa veniva appeso al collo dei bambini per fugarne il «malocchio» ed appariva ancora, al pari del sebèze barbaricino un residuato della idolatria praticata dai sardi antichi. Questo amuleto logudorese è su pinnadellu. Lo Spano spiega questa voce per giavazzo, ambra bruciata; ed alla voce giavàzzo, riportata nella seconda parte del suo vocabolario, ci fa intendere in sardo: «ispecie de bitumen nieddu». Il Wagner definisce pinnadellu «una pietra nera di giavazzo che si attacca al collo dei bambini per scacciare la iettatura». E cita degli esempi 27 riportati dalla poesia popolare (dal Soro Morittu dal Bottiglioni e dal Bellorini). Indi soggiunge: «Anche l'origine della voce è incerta, ma oserei riallacciarla a pinna (essere in pinna, essere a ridosso, essere in sicurezza) in quanto, secondo la credenza popolare, queste pietre preservano dal malocchio». L'illustre studioso aderisce così, implicitamente, alla derivazione di pinna dall'ebr. pinha già data dallo Spano con la spiegazione di «antemurale», che richiama l'idea della roccia, della pietra. Il giavazzo o giaietto o gagate — ci spiegano i vocabolaristi dell'ital. — è una varietà di lignite adoperata per far bottoni, oggetti d'ornamento, per lutto ecc. Ma i nostri antenati non conoscevano su pinnadèllu come materia prima, intrinseca, bensì soltanto come oggetto d'uso, di scongiuro e di ornamento allo stesso tempo: nell'amuleto dalle virtù apotropaiche. Ojos de pinnadellu. Quante volte questa espressione è corsa in bocca alle mamme chine in «dolce atto d'amore» sulla culla dei loro piccoli? E quanti giovani popolani amano ancora rivolgerla galantemetne, perfino nei mutos cantati a suon di chitarra, alle forosette dagli occhi assassini? Occhi vivi, occhi neri lucenti, occhioni di malia. Ma nonostante questa chiara esemplificazione che ci viene dalla viva parlata logudorese, molti non si sapevano spiegare, ai nostri tempi, in che cosa consistesse realmente su pinnadèllu. Ce ne aveva dato una chiara spiegazione, fra tanti altri, l'amico Giov. Antonio Cossu poeta thiesino, cinque anni prima che il Wagner pubblicasse il suo Dizionario Etimologico Sardo. Cultore del puro eloquio dei padri e vigoroso di virtù mnemoniche, il Cossu ci aveva spiegato che il «pinnadèllu è una specie di pietra nera a forma quadra, incastonata come a ciondolo al centro di una collana fatta di coralli o perline». E ci ha soggiunto che, pur in funzione di vezzo, la perla di pinnadèllu aveva in antico l'attributo di scongiurare il «malocchio». La spiegazione del Cossu, aderente alla definizione di pinnadèllu come materia grezza data dallo Spano, integra positivamente l'intero significato dell'amuleto. E chi scrive ne ha derivato conferma più d'una volta nel ricordo dell'apotropaico vezzoso pinnadèllu appeso al collo dei bambini 28 logudoresi e perfino di qualche povera demente o invasata, come si diceva, dal «Malignu». 29 30 RICERCHE E SCOPERTE LINGUISTICHE DEL WAGNER Il Prof. Max Leopold Wagner venne in Sardegna nel 1905 quale studioso di linguistica e ci ritornò nel 1911, sempre attratto dall'interesse filologico e glottologico che gli presentava la Sardegna nei tanti filoni in cui egli seppe scavare abbondante e prezioso materiale di studio. Fu in quest'ultimo periodo che, frequentando assiduamente la Reale Biblioteca presso l'Università di Cagliari, si vide un giorno presentare dal bibliotecario Cav. Arnaldo Capra, divenuto suo caro amico, un prezioso esemplare del vocabolario sardo del tanto benemerito Can. Giovanni Spano che comprendeva dei fogli manoscritti, interpolati alle pagine di stampa e con esse rilegati, coi quali un anonimo introdusse aggiunte e rettifiche alle voci prevalentemente sardo-logudoresi raccolte e definite dallo Spano. Quel volume proveniva in donazione alla stessa biblioteca dal Prof. Giuseppe Todde. Il Wagner si tuffò avidamente nell'esame linguistico di quelle aggiunte che trovò estremamente interessanti ad opera di uno studioso ed intelligente autore. Dalle caratteristiche del lessico usato dall'anonimo e dalla localizzazione su voci in prevalenza appartenenti al vernacolo di Bonorva, oltre che di Giave e di qualche altro comune del Logudoro, nonché al sassarese, col quale l'ignoto autore delle aggiunte rivelò di avere dimestichezza, il Wagner intravide subito che quelle «aggiunte e rettifiche» erano state elaborate da «un anonimo bonorvese». E con questa indicazione le pubblicò più tardi, con chiarimenti ed osservazioni proprie, in «Archivio Storico Sardo» (vol. VII). Inoltre, in seguito ad apposite approfondite indagini, scoprì che la paternità di tali «aggiunte e rettifiche » apparteneva a Paolo Soro Morittu di cui abbiamo dato qualche cenno biografico. Nella sua introduzione a quelle aggiunte, il Wagner scriveva fra l'altro: «Ci è parso che le note tali e quali sono hanno un certo valore documentario in questo senso che rappresentano quel che un Bonorvese intelligente e buon conoscitore del natio vernacolo, credette di dover cambiare e correggere nel vocabolario dello Spano, nonché di aggiungervi. Salta agli occhi che queste sue annotazioni hanno soprattutto un 31 valore documentario e vorremmo augurarci che simili lavori si facessero nei diversi paesi dell'isola. Come che, come il nostro autore, prendessero, man mano che consultano il vocabolario dello Spano, appunti, aggiungendovi i vocaboli non enumerati e correggendo e modificando le definizioni insufficienti o sbagliate». Nel richiamare queste parole del Wagner, chi ora raccoglie ed elabora le presenti note si sente confortato ed incoraggiato dall'incitamento del massimo studioso della lingua sarda per proseguire, anche se con deboli forze e senza specifica qualificazione, nell'assunto che si è proposto, nell'intento ambizioso di dare il suo pur modesto contributo alla salvezza — come scrisse lo stesso Wagner — del patrimonio linguistico sardo. 32 PAOLO SORO MORITTU E LE SUE LACUNE NELLE INTEGRAZIONI ALLO SPANO Abbiamo già scritto che Paolo Soro Morittu ha interpolato in fogli manoscritti un esemplare del vocabolario sardo dello Spano — secondo gli accertamenti fatti dal Wagner — conservato nella Biblioteca Statale presso l'Università di Cagliari. La personalità di Paolo Soro è poco conosciuta fra le generazioni di questo secolo, anche nel suo paese natio. Del Soro avevamo raccolto i seguenti cenni biografici, inviatici nel 1927 da una sua nipote, tale Genesia Soro, residente a Oristano. Nacque a Bonorva nel 1804 e morì a Sassari nel 1875. Laureatosi in Teologia fu nominato professore e preside della facoltà nell'Università di Sassari e vi dedicò la sua appassionata attività finché questa facoltà venne soppressa nel 1873. Fu rettore per un triennio del Convitto Nazionale di Sassari e poi rettore di quella Università. Come rappresentante della città e dell'ateneo di Sassari, venne inviato a Firenze per il VI centerario dalla nascita di Dante Alighieri ed in quella circostanza fu insignito della Croce di Cavaliere de SS. Maurizio e Lazzaro. Commemorò a Sassari, nell'occasione dei funerali, la regina Maria Adelaide, moglie di Vittorio Emanuele II. Sempre a Sassari fu l'oratore per l'inaugurazione del monumento a Domenico Alberto Azuni. Lasciò molti manoscritti tra i quali un vocabolario sardo che andò disperso per incuria dei nipoti. Nei fogli manoscritti interpolati al citato esemplare del vocabolario dello Spano, il Soro Morittu colmò molte lacune sul lessico registrato dall'illustre canonico ploaghese, e fece delle rettifiche morfologiche e di significato di numerose voci riportate nello stesso vocabolario, integrandole anche con spiegazioni ed esemplificazioni appropriate. Si direbbe che così integrato e meglio definito in molte voci, il vocabolario dello Spano possa presentarsi allo studioso ed al consultatore generico come una raccolta pressoché emendata e completa. Ma non è così. Nella lingua sarda c'è ancora molto da osservare, da ripescare, da scavare, da integrare. E chi scrive si è proposto di dare un apporto, sia pure modesto, all'integrazione di quanto il Soro stesso ha supplito alle 33 omissioni ed alle inesattezze o insufficienze dello Spano, limitandosi al lessico bonorvese, di cui il Soro era buon conoscitore. E se l'esempio potesse avere seguito per tutte le pariate sarde, si potrebbe ottenere un risultato così copioso di frutti da mettere in rassegna un ben nutrito vocabolario della nostra lingua. Ecco ora, come prime indicazioni, le voci che il Soro avrebbe dovuto inserire nelle omissioni dello Spano: le lacune delle lacune. Nei precedenti capitoli di questo scritto abbiamo ampiamente trattato, tra l'altro, le seguenti voci appartenenti alla parlata bonorvese: abbercheddàre (ingozzare, rimpinzare); annujadòrzu (rotula del ginocchio o del gomito); attrasettàre (mortificare, estenuare); attutinàre (nell'accezione di infastidire, provocare, insolentire); l'enigmatico bòzziga, in uso ancora nell'espressione: non bides mancu sa bòzziga (da noi scoperto qualche anno fa a Villanova Monteleone come l'antenato di boccia (il cuore di un gomitolo di filato); culvenu (custodia, ritiro. nascondiglio); galìu (scarso, insufficiente di misura); giannittàre (il guaire dei cani, da giannìttu, latino vagitus); grusàre (amareggiare, intristire); inzòttu (pena, affronto, fatica imprevista); isculpìre (nell'accezione di scolpare); malevaldìa (maleficio di fattucchiera); minzìdiu (menzogna calunniosa); tura (in nieddu che tura, per fumo nero e denso). Ebbene, queste voci non raccolte ed ignorate dallo Spano non furono raccolte neppure dal Soro che non le poteva ignorare. Ma esistono nella parlata bonorvese tante altre voci che il Soro non ha raccolto per supplire alle omissioni dello Spano. Ne citiamo tutta una serie, neppure completa. ABBALESTRA - femminile logudorese, termine di caccia; appostamento occulto. Il Mossa nella poesia «Su cazzadore» (descrivendo il suo fucile): «De raru suzzediat a faddire / si mi 'eniat fera a s'abbalestra». (Raramente il mio fucile falliva se la fiera mi veniva a tiro). Ed in sua nota manoscritta: «abbalèstra, agguato ». Viene spontaneo considerare che abbalèstra fosse originariamente = a balestra, il punto indicato per il tiro, quando la 34 caccia, prima che si conoscessero le armi da fuoco, come nel periodo nuragico, era praticata con le frecce ad arco, le balestre. ABBORTIJARE - verbo logudorese, disseccare, divenire arido ma anche grinzoso come bortìju (sughero), per accezione diffusa tra la gente di campagna. Antonio Sanna in «Note Sardo-logudoresi » (Studi Sardi (1952-53): abbortijàre , «inaridire, rendere asciutto e legnoso o insensibile, riferito a vegetali, frutta, carne ed anche parti del corpo. Nella coscienza dei parlanti è chiarissima l'idea di "rendere simile al sughero"»; ecc. ecc. AJUBORE - m. logudorese, gioia, giubilo non contenuto. Il Mossa in «Su lamentu - in morte de Gisella»: «Ahimè, cant'ajubore /cantos teneros carignos!». Antonio Sanna in Studi Sardi, op. citata: «(b)ajubòre, (azhubòre), gioia trepida mista a timore. Voce ormai rara». ARIJEDDA - femminile logudorese, spiga di grano duro degenerata, un po' simile alla spiga di grano tenero. Deriva da arista, resta, perché s'arijèdda (sincope di aristijedda) contiene più reste che chicchi. Per il campidanese, il Porru registra aristixedda, «s,f, dim., aristula». ARTURIU - m. logudorese, brio, spirito e sensi dell'uomo. Modi di dire: Ses chenza artùrios (sei senza brio, privo di spirito). Da-e cando m'est morta sa cumpanza so restadu sen'artùrios (Da quando ho perso mia moglie son rimasto senza spirito o senza sensi). Il Mossa nella sua commovente lirica «Baddemala»: «Oh, disinganna su pius ostile / chi mi leas arturios e testa!» (Oh, disinganno il più ostile che mi togli i sensi ed il senno!). Neppure il Wagner ha raccolto il termine artùriu. Il suo etimo? Lascio la porta aperta a degli studiosi per scrutare il volto della sfinge. 35 BIRZINE - m. f. logudorese, colore sul turchino oscuro .come livido. Deriva da birde (verde). Modo di dire: ses bìrzine da-e su frittu. (Sei livido dal freddo). BUNDU - m. logudorese, serietà, carattere ineccepibile e coerente dell'uomo. Ornine senza bundu, uomo senza carattere; ponner bundu, considerare serio e coerente un uomo per le sue azioni. Il Mossa nella poesia «Sa tirania amorosa»: «Ponner bundu in femìnas est lucura» (attribuire serietà alle donne è cosa vana, come dir ciance). CAMPANIARE - verbo logudorese, ordinare, comporre, mettere insieme. Il Sanna in Studi Sardi, op. citata così spiega: «mettere insieme, mettere d'accordo. Il verbo e i deverbali campàniu, campania si incontrano frequentemente nei testi medioevali: "fechimus inde compania... Essende facta custa cumpania". (Carta del 1173 riportata dallo Spano; Ortografia, II, p. 88, 89)». Cita poi campania, campàniu, campaniare riportati da diversi condaghi (Condaghe San Pietro Di Silki, Condaghe San Trullas, CSMB). Infine, dissentendo dal Meyer-Luebk, Altlogudorese, 58, sostiene, e non a torto, che «è voce vivissima nell'uso logudorese, tanto col valore di "mettere d'accordo" che ha nell'ant. sardo, quanto in quello di "ordinare, rassettare", etc: "kampaniare sos mannujos, sos pilos" etc: ordinare, mettere insieme i manipoli di grano, ravviare i capelli; akkampaniare-sì, mettere in ordine. E insieme al verbo sopravvivono i due deverbali». COROGLIARE - verbo logudorese, ingannare, raggirare. Il Mossa nella satira «Sas feminas»: «Ma como chi bos isco cuss'astruscia / su de mi corogliare est corogliadu» (Ma ora che vi conosco quell'astuzia, il vostro raggirare è raggirato). Ed in nota manoscritta: «Corogliare: infinocchiare, abbindolare». Corogliare = coglionare, per metatesi variata. 36 CONNOU - m. logudorese, cordoglio. E' voce in disuso. Nelle poesie del Mossa ricorre soltanto due volte. Ed in nota manoscritta l'Autore ci spiega: «Connòu: cordoglio, afflizione; si usa in prosa ed in versi, ma morigeratamente; eccone l'esempio in un'antica canzone: Ohi, coro piena de connou! Ohi, coro piena de pinnicu!». CULIU - aggettivo m. logudorese, ultimo; si dice per il cavallo corridore che arriva al traguardo per ultimo, anche per chi, in una processione o corteo, è l'ultimo della fila; culìu è pure lo scolaro che è considerato l'asino della classe. Antonio Sanna in op. citata: «culìu, aggettivo, ultimo. Formazione intrinseca da culu. Cf. codianu da coda. Forse attestato - culìa - in un passo non ben chiaro di un documento del 29-6-1120, riportato in CDS (Codex Diplomaticus Sardiniae) I, 29, p. 201: et calia de custas tres domos». DELLEZU - m. logudorese, dileggio, scherno; nell'uso comune anche la cosa o la persona che ripugna: est una dellezu, per dire che è ripugnante. Antonio Sanna in opera citata: «delledzu e delledzare, irrisione, irridere: sono le voci toscane "dileggio", "dileggiare"». DIDDIA - femminile logudorese, pietruzza levigata dall'acqua del mare o di un fiume. (V. la voce pedrischèddula). Forse deriva da biddìa (gelo, ghiaccio), in quanto la pietruzza dìddìa si presenta in superficie levigata come il ghiaccio e di questo dà la sensazione analoga quando è estremamente fredda. FITTIVU - aggettivo m. logudorese, continuo, incessante. Il Mossa in «S'attìtidu» (alludendo a superstizione); «Non fit senza motiva / chi urulende fittìvu / sos canes m'atterrian su reposu» (Non per nulla i cani, ululando continuamente, mi atterrivano il riposo). FORROTTULA - femminile logudorese, anche furròttula: specie di pane casalingo, di fior di farina, a forma di tralcio ovoidale. In occasione del Capodanno veniva regalata ai ragazzi e ai poveri che 37 andavano di porta in porta a pedìre (chiedere) a candelarzu (da calendarium) e veniva infilata nelle braccia come un festone. Col tema forr- deriva da forru e con furr- da farru (forno). Non crediamo affatto che derivi da farre — come altri sostengono — anche perché il farre è una semola grossolana, specialmente quella derivata dalla farina di granoturco, di cui non si fa la forròttula. FROBBADU - m. logudorese, uva bianca, un po' simile all'uva nuragus, che dà vino secco pregiato, veramente aristocratico. Il vitigno, dallo stesso nome, è di origine iberica. Veniva coltivato nel secolo scorso, anche prima che la filossera infestasse e distruggesse le vigne, in tutto il Logudoro, nell'Anglona ed in altre regioni settentrionali, e si coltiva ancora, specie nell'Algherese. Non è altro che il torbato, conosciuto come vino tipico dell'Andalusia: il trubat, dalla cui voce deriva in sardo trobbadu e, per scambio della t iniziale con f, frobbadu. CRINA - femminile logudorese, primo chiarore dell'alba. Ponner grina: albeggiare. Da un'antica gobbuletta anonima: «Inoghe mi faghet die / ponzende grinas in mare» (Qui mi spunta il giorno facendo chiarore nel mare). Ponner grina in logudorese risponde esattamente ad albeschere, avvreschere. Paolo Mossa in «S'incontru fortunadu»: «Si m'odiat su cara amadu oggettu / E addite pius m'avvreschet die?» (Se mi odia l'oggetto amato, a che prò mi spunta più il giorno?). Ed in sua nota manoscritta: «avvreschere, albeggiare, aggiornare». La voce grina è forse un catalanismo. ILLORIARE - VERBO logudorese, «dire sciocchezze». Antonio Sanna in op. citata: «Anche questo verbo è una costruzione metaforica; formato "su loru" = lorum, come dire "essere sciolto dai loros... del buon senso"». INNORIARE - VERBO logudorese; Sanna in op. citata: «sparlare di uno, calunniare e anche disprezzare. Formazione denominale per dissimilazione da onore con in negativo: in - (o) - noriare». 38 INZICHI - cong. logudorese in forma avverbiale: forse che, senza dubbio, probabilmente. Sanna in op. citata: «inzichi, (indz-), cong. che si potrebbe tradurre, in maniera approssimativa, come "evidentemente", "si vede che" e si usa per introdurre una deduzione logica se pure in senso dubitativo. Può corrispondere ad una espressione impersonale: "è chiaro, è evidente che" e si costruisce regolarmente col congiuntivo. E' l'esito, foneticamente regolare, di inde hic, con la consueta ripetizione paragogica dell'ultima vocale». ISALIADU - aggettivo m. logudorese; Sanna in op. citata: «sciocco; formazione sarda su sale con in- privativa». ISBENTIUMENE - m. logudorese; in senso figurato si dice per un parlare insulso e a lungo, di cose futili che infastidiscono o annoiano. Corrisponde al campidanese isciollòriu. Isbentiumene è un deverbale: da isbentìàre, (Spano: «evaporare»). ISCETTU - aggettivo m. logudorese, scelto; dicesi di oggetto pregevole, quasi raro. Il Mossa in «Su cazzadore» dice che il suo fucile fit iscettu e spiega in nota manoscritta quest'aggettivo: «prescelto, unico». Evidentemente la voce iscettu è corruzione di isceltu. ISTEJARE - VERBO logudorese, allontanare, discostare; deriva da tesu (attesu), lontano. In centri montani è istesìare. ISULIARE - VERBO logudorese, mandar via, allontanare con la violenza. E' riferito particolarmente ad animali nocivi come volpi, donnole, avvoltoi, cornacchie ecc. In una vecchia canzone: «Corvos non che nde poto isuliare / da-e sa figu mia carcarende » (Non riesco a cacciar via i corvi gracchianti dal mio fico). Sanna in op. citata: «isuliare, cacciar via, disperdere, detto specialmente di 39 animali; riferito a persona acquista un senso dispregiativo. Continua direttamente exiliare». 40 lievemente ALTRE LACUNE DEL SORO MORITTU Se l'incitamento che riceve l'autore di queste note linguistiche da parte di non pochi amici, perché egli continui nella ricerca e nello studio che ha intrapreso non inutilmente, è motivo per lui di soddisfazione e di incoraggiamento, gli si balena d'altra parte il sospetto che dei lettori possano attribuirgli intenzioni vanagloriose nell'integrare quanto l'illustre canonico Giovanni Spano ed il pur dotto Prof. Paolo Soro Morittu hanno elaborato sul lessico sardo. Per dissipare un tal sospetto e scongiurare un'eventuale taccia di pretensione che lo mortificherebbe non poco, egli rende noto che si rimette umilmente all'appello ispiratore che lo stesso Spano ha indirizzato ai suoi lettori nel dare alle stampe il suo prezioso vocabolario sardo. Nel chiudere l'introduzione a quell'immane fatica, dopo aver dichiarato onestamente che «un lavoro di tanta mole per la prima volta che vede la luce, non è possibile che vada scevro di pecche», e che a lui è bastato «di aver gettato le larghe fondamenta dell'edifizio», fa generoso appello a «tutti quelli cui (questo edifizio) appartiene» perché porgano la mano per «innalzarlo al totale suo culmine». Si conceda dunque a chi scrive di portare, tra i beneficiari di quel basilare edifizio, qualche pietra supplementare, dei frammenti laterizi ed alcune manciate di malta per sutura. Ecco, quindi, la continuazione delle note lessicali spigolate fra le lacune del Soro nelle integrazioni da questo apportate al vocabolario dello Spano. ISCANCU - m. logudorese, strappo, rottura. E' un deverbale, da iscancàre, tirar via a forza, detto specialmente di rami e tralci che si strappano con violenza dal tronco. Anche in senso figurato, per il cuore che riceve una scossa, uno strappo. Il Mossa così nella poesia «Su determinu»: «... a su coro un'iscancu »; poi spiega il termine in nota manoscritta: «scossa, sensazione, mancanza violenta». 41 ISCASIDDARE - verbo logudorese, da casìddu = quasillum, sovero cilindrico, bugno per api, arnia. Significa cadere dall'alto, da un albero, da un muro ecc. Ne deriva iscasiddàda, sinonimo di istrampàda (da istràmpu, precipizio). Iscasiddàre significa anche togliere il miele, sfasciare il casìddu. Questo poteva cadere dall'alto e sfasciarsi, quando anticamente veniva collocato su di un picco o di un albero, per essere riparato dal bestiame. Di qui la similitudine col primo significato. ISCHIJITTU - aggettivo m. logudorese, squisito, gustoso, di sapore delicato. Significa anche schifiltoso nel mangiare, difficile ad accontentarsi se non di cibi squisiti; lecornioso. Modo di dire: ischijìttu ses, pedinde moris (se sei schifiltoso morirai mendicando). ISTRAZONE -femminile logudorese, diminuT., di istràle (bistrale) accetta, picola scure. LICHIDU - aggettivo m. logudorese, liquido, pulito, sceverato. E' usato come in italiano nell'espressione dinari lìchidu (denaro liquido, risparmio pulito). Anche: trigu lìchidu, latte lìchidu, per grano senza loglio o altre impurezze, per latte non annacquato e cosi via. LULLÙ - m. logudorese, calunnia, attribuzione maligna di fatto denigratorio. Modo di dire: m'han bogadu custu lullù (m'hanno attribuito questo fatto calunnioso). In quale fondo arcaico occorre ricercare il suo etimo? MADRUNCULA - femminile logudorese, osso del malleolo che articola il piede di animali fessiodattili (porco, capra, bue ecc.). Rassomiglia ad un dado con le facce irregolari, concave o convesse, con caratteristiche diverse una dall'altra. Della madruncula si servivano anticamente, e si servono ancora, i ragazzi paesani per fare il giuoco del dado: la faccia concava ha per valore uno; la 42 opposta, che è convessa, vale zero; delle altre una vale due, la opposta rappresenta tutto il valore della scommessa: su tottu. Per la sua particolare struttura la madruncula, lasciata cadere dall'alto, si posa più facilmente per terra mostrando in alto la faccia che vale zero: su nudda. Questo gioco è analogo a quello chiamato del barraliccu nei paesi del Campidano. Vien da considerare che la voce madrùncula sia una contrazione di madurùncula, da madùra (grande), con la consueta uscita in -ùncula, come dire l'osso più grande. MALUGAGNU - E' interiezione composta da malu + gagnu. Gagnu = gagno (intrigo, schr. ventre). Malugàgnu! Come dire: Mal'istògomo! Malu fìdigu! Mal'intragna! (Brutto stomaco, brutto fegato, cattive viscere). I! Mossa introduce quest'interiezione nella sua spiritosa celia «A sos semestenesos»: Semestene si godit, malugàgnu / de-ì custa bellesa giutt'annottu (Semestene gode, mal se ne giovi!, di questa bellezza rinomata). In cui il sapore spregevole dell'interiezione è in simbiosi con l'ironia del sostantivo bellesa (di una brutta sposa). In nota manoscritta l'A. fornisce questa spiegazione di malugàgnu!: «che mal prò gli faccia!». Ma se questo valore è appropriato per l'assunto dei versi citati, altro è il valore più comune e consueto di malugàgnu: quello che va riferito, con le interiezioni prima esposte, a persona infida, equivoca, perfida. MANNOSIGU - aggettivo logudorese, sostenuto, superbo. Sanna in citata «Studi Sardi» con lo stesso significato di «superbo»: «Formati su mannu = magnum, col suffisso -osus, estremamente produttivo nel sardo, come nelle altre lingue romanze, e con -icus, che si lega, molto spesso, con il suffisso precedente per la formazione degli aggettivi». MANUDA - femminile logudorese; tenner a manuda si dice per qualche selvaggina che si acchiappa con le mani. Il Mossa in «Su cazzadore »: Bennida fit s'arcazza a tale tiru / chi la podia tenner a manuda (Era venuta la damma a tiro tale che l'avrei potuta 43 prendere con la mano). A manuda: contrazione di a manu nuda (senza impiego di arma). MUFFACHE - f, logudorese, specie di pane fatto di sola farina di grano, non però dal fiore, ma dal secondo o terzo velo, un po' bruna, dopo aver tolto dallo staccio la crusca ed il cruschello ed averne separato la semola. Sa muffache è simile ad una focaccia ovoidale, un po' spessa, con delle ditate sopra. E' diversa dal pane chivarzu (latino cibarium) la cui farina contiene un po' di cruschello. Quale sia l'etimo di muffache non ci è dato sapere; tuttavia riteniamo di non andare errati facendo derivare muffache da muffa, non però nel significato di muffito o di tanfo (con questo significato muffa si dice in logudorese mughèru), ma di cosa inzuppata d'acqua non ammuffita. Ammuffaammuffa si dice per tutto ciò che è pregno d'acqua, messo a bagno o per aver ricevuto la pioggia, anche per un ubriaco perché inzuppato di vino. La pasta della muffache, a differenza di quella del chivarzu che viene lavorata un po' in asciutto, è infatti molto idrata. MURIMENTU - m. logudorese, tumulo di sassi per sepoltura campestre. Diamo la parola a Paolo Mossa, che in apposita nota a questa voce, usata nella bella egloga «Sos duos amantes» (v. «Stella di Sardegna» del 31.1.1878, a. IV), ne fa una descrizione esauriente: «Murimèntu: quasi muramèntu, muriccio. Ritrae da muru l'etimologia ed altro non è che un mucchio di sassi che in campagna ponsi sui siti ove qualcuno disgraziatamente periva anche quando non vengavi seppellito, affine di tramandarne per tradizione la memoria ai posteri. Questo vocabolo sfuggì all'attenzione del benemerito senatore Spano nel compilare il suo vocabolario; giacché non può dirsi d'avervi supplito con la voce monumentu, mentre questa — pur restringendone il significato soltanto a sepolcro — involve sempre l'idea della sontuosità e d'un epitafio; quello invece la esclude affatto, ricorda sempre una sventura e riducesi ad un mucchio di sassi senza un nome. Il nostro murimèntu ha una qualche affinità coi tumuli che nei tempi eroici 44 inalzavansi ad onorare i guerrieri caduti in battaglia o nel recarsi alle loro spedizioni pero a questi, apponevansi un'iscrizione, come prelevasi dal verso seguente: Et tumulun. facite et tumulo superaddite carmen”. NACHI – E’ sincope di naran chi; dicono, si vocifera” è quanto spiega esattamente il Mossa per nâchi, in nota manoscritta riferendosi a questa voce da lui molte volte usata in poesia. E’ bene quindi che si scriva col segno dell’accento circonflesso sulla vocale a: nâchi. NIBIDU - agg logudorese, nitido, forbito. Si dice per un ramo o tronco d'albero che ha la corteccia pulita, senza macchie e senza grinze, anche per un frutto immacolato con buccia liscia e sana, come il cocomero, la pesca, la castagna ecc. Il femminile di nìbidu è nìbida (con la b lenita) da cui si ha per sincope nìda. L'aggettivo nìdu è poco usato (forse per non creare ambiguità col sostantivo nidu, nido). Il Soro riporta l'aggettivo nìdu (senza l'accento circonflesso per segnare le sincope) con l'accezione di «netto, terso, senza difetto». Ha supplito così alla lacuna dello Spano per l'aggettivo nìdu, ma non a quella dell'aggettivo originario nìbidu. PEDRISCHEDDULA - femminile log-, da pedra (pietra). E' forma particolare di diminutivo, come trotischèddu (trota appena nata) con l'uscita in -ischèddu (-a, -la). Il dimin. di pedra à pedrighèdda (in nuor. pedrischèdda). La pedrischèddula, pure essendo una pedrighèdda delle più piccole, all'incirca quanto un dado da giuoco, assume questo nome solo in funzione di un giuoco da ragazzi. E' un sassolino levigato, tondeggiante, come diddìa di vario colore, per lo più bianco e nero, che si trova numeroso su sponde di ruscelli e nelle spiagge di mare. In formazione di cinque pedrùscheddulas ogni ragazzo concorrente al giuoco le butta per terra in ordine sparso, però con accorgimento, in modo che non risultino né troppo vicine né troppo lontane una dall'altra: ad uno ad una le raccoglie con la mano destra (se mancino con la sinistra) senza farsele cadere, altrimenti perde la giocata, ma se le contiene in 45 una sola mano segna un punto. Il giocatore che, alla fine della partita convenuta, segna i punti prestabiliti vince la posta. PUDEMIA - femminile logudorese Riportiamo senz'altro dal Sanna in Studi Sardi, op. citata: «pudèmia, puzza insostenibile. Fig. detto di persona moralmente spregevole. Est una pudèmia. Sarà epidemia con la -u- di putere. Lo Spano riporta epidemia col significato proprio; ma comunemente si è avuta l'aferesi di e-: pidèmia, sa pidemia». Si suol dire, infatti: sa pidèmia de su 'ermizolu, de su colera; l'epidemia del vaiuolo, del colera. PERDEZZI - interiezione logudorese: perbacco! perdio! perdinci! Perdèzzi! Anche perdèzzila! perbaccola! perbaccolina! Il Mossa usa entrambe le interiezioni come per celia, facendo dell'umorismo. REBBEGLIARE - verbo logudorese, nella comune accezione di scassare, dissodare il terreno. Fagher sa rebbeglia indica fare lo scasso a mano, con zappe e picchi, in profondità di 50 cm. ed oltre, asportando vecchie radici arboree e sassi di ogni dimensione, per impianto di vigne. Per fare sa rebbeglia si procede a raglia a raglia, cioè eseguendo uno sbanco per volta, dritto e spesso di 30 o più cm. Riteniamo che rebbegliare sia un catalanismo, come lo è raglia = catalano ralla. RENZIA - femminile logudorese, schiatta, discendenza. Da erènzia ridotta per aferesi. Erènzia significava in antico eredità, famiglia. E' lo spagnolo herencia. Nell'uso comune e curialesco per indicare gli eredi di un patrimonio si dice sa rede, cui si collega la voce rènzia. SEMIDANU - m. log,: è un vitigno gentile; nell'aspetto vegetativo rassomiglia al nuragus. L'uva semidànu produce vino delicato, profumatissimo. Il suo grappolo è allungato, con acini piccoli e polpa verdognola, buccia coriacea e vinaccioli piccoli. La voce semidànu parrebbe derivare da seme (sèmen), ma è indubbiamente di origine toscana. 46 SILVA - femminile logudorese, stelo delle cucurbitacee. Silva de melone, de sìndria, de cugùmere (del melone, dell'anguria, del cetriolo ecc.). Il Mossa ce ne ha dato anche un'altra accezione oggi in disuso. In «Stella di Sardegna», genn. 1878, a. IV, annotò la voce silvone (cinghiale): «Chi non sa che le zanne del cinghiale, oltre a iscaglias e caminzones, chiamansi pure silvas? Chi non sa che in sardo silva non si dice in significato di selva, bensì per denominare le piante cucurbacee, le quali si allungano accuminate e, stante la rassomiglianza della loro forma colle zanne del cinghiale, diedero il nome a queste?». SUPREVA - femminile logudorese, sorba. Parrebbe che la voce originaria fosse superba, poi divenuta supreva per metatesi e con lo scambio della b in v, forse in ragione della sua asprezza anche quando si coglie matura, ma non ancora appassita nella paglia o in appositi recipienti. TRASINU - m. logudorese circostanza impreveduta. Il Mossa nella lirica «Su tribunale de Amore»: «Mustradi in custu trasìnu / severu cantu potente» (Mostrati, in questa circostanza, severo quanto potente). E' l'istanza di un amatore che aveva querelato la sua amata, Lisabella, perché gli aveva rubato il cuore e non era riamato, portandola innanzi al tribunale del dio Amore. L'istanza, direttamente esposta a questo supremo magistrato, ritenuto tutt'altro che imparziale nei suoi giudizi, così veniva completata: «Paghe chi Lisa su coro / mi torret liberu e francu; / o chi in cambiu assumancu / si diat su coro sou...» (Fa' che Lisa mi restituisca il cuore libero e franco; o almeno, per compenso, mi dia il suo cuore...). Circostanza non peregrina ma impreveduta per il povero amatore. Perciò l'Autore adotta l'invocazione: «Mustradi in custu trasinu...» che annota in manoscritto: «Mostrati in questa emergenza». Quale l'etimo di trasinu? 47 TRODDULARE - verbo logudorese, rotolare, come trottolare quando il movimento della trottola, perso il suo equilibrio centripeto, è un rotolare per terra a moto disuniforme. Si dice comunemente: ch'est caladu troddulende (è disceso rotolando); ch'est trodduladu da-e sa raza (è rotolato dallo stremato). Dal Mossa nella celia «A sos semestenesos»: «...che boccinu troddulende» (come il boccino rotolando). Ne è derivato trodduladura, l'azione di rotolare. Non è azzardato ritenere che il verbo troddulare derivi dall'it. «trottolare» assumendo nel percorso semantico il significato di rotolare. ZUPPEDDU - m. logudorese, dim. di zuppu o zippu: truncheddu,segmento di tronco. Il Campus in «Note lessicali» (Arch. Storico Sardo, vol. VII): «con questa voce si indica precisamente un pezzo di legno tozzo e grosso che si usa come sedia nelle campagne. E' da mettersi fra i derivati di cippus e la u si spiega per l'influsso della labiale seguente». Zuppeddu è sempre ricorrente nella nomenclatura agropastorale, più vivo che zippu. Lo segnaliamo da un sonetto che l'A. di queste note, decine d'anni fa, dedicava ad un suo amico, che, essendo Cherchi il suo cognome, amava firmare le sue poesie con lo pseudonimo di «Quercia»: Da-e su truncu, boìdu, a tuveddu, non b'hat potidu essire unu giuale e solu b'est restadu unu zuppeddu. 48 MANCATE RETTIFICHE DEL SORO ALLE INTEGRAZIONI NELLO SPANO Nei fogli manoscritti interpolati da Paolo Soro Morittu nel vocabolario della Spano compaiono numerose rettifiche morfologiche e di significato da lui apportate alle voci lessicali dello stesso vocabolario; rettifiche indubbiamente interessanti, alle quali il Wagner attribuì soprattutto un valore documentario. Ma ben altre rettifiche il Soro avrebbe potuto riportare in quei suoi fogli manoscritti. Ecco perché ci accingiamo ad indicarne una raccolta nell'intento di contribuire, colmando anche di queste sue lacune, alla salvezza del nostro patrimonio linguistico. BABBARROTTU - m. logudorese; la definizione che ne dà lo Spano per «voce di paura ai ragazzi» va rettificata secondo una nota manoscritta di Paolo Mossa: «mammuntone, spauracchio». E si può aggiungere: spaventa-passeri. Al Soro è sfuggito di fare a questa voce, nel vocabol. da lui interpolato dello Spano, una così sostanziale rettifica. Il mammuntone bonorvese non ha alcuna parentela col mamuthone carnevalesco di Mamoiada. La voce mammuntone è un incrocio di mamma a muntone (mamma a mucchio), come per dire di una madre vestita con un tetro mucchio di stracci. simile ad un babbarrottu (peggiorativo di babbo): entrambi per far spavento a sos fizos malos. BETTU - m. logudorese; io Spano ce lo spiega per «colpo, gettito, colpo di fucile». Ma per bettu s'intende anche il tanto della semente occorsa nelle colture a cereali o leguminose. Sono ricorrenti i modi di dire: Da-e sa regolta no est bessidu su 'ettu; pagu 'ettu, pagu isettu; e simili. Il Soro ha mancato di integrare in questa voce lo Spano. BRASSANU - aggettivo m. logudorese; è corruzione di balzanu = balzano. Su caddu est brassanu a pês de segus (o a pés de nanti) per indicare il pelame bianco che fascia il collo del piede del cavallo 49 o intorno al tarso. Si dice anche: est pei alvu (dal piede bianco). Lo Spano ha registrato balzanu e spiega che caddu balzanu «è quello segnato con striscia di colore (?), segnata di bianco al piede». Il Soro integra con un altro significato il termine balzanu: «lista di roba che serve di rinforzo ed ornamento alle gonnelle o vesti talari dei preti»; e questo ha senso per similitudine. Però non ha raccolto il termine bonorvese brassanu, che è tuttora vivo ed esclusivo nel significato di balzano. CAMINZONE - m. logudorese; lo Spano riporta questo termine spiegandolo «musoliera, dei capretti (Padria)». Il Wagner, nel Dizionario Etimologico Sardo, alla voce camu, che definisce esattamente «morso del freno dei cavalli», completa in parentesi la definizione dello Spano: «un pezzo di legno che si mette in bocca ai capretti perché non possano succhiare il latte delle madri, per svezzarli». Indi tratta dei derivati, tra cui caminzòne localizzandolo a Macomer, Padria e Posada, ancora per «musoliera dei capretti», e nel logudorese settentrionale cabinzòne, «id. (incrociato con cabu, giacché la voce significa anche capo di corda o di filo», secondo un'indicazione del Casu; poi i denominali accamàre, accabinzonàre ed altre varianti per «mettere l'accàmu ai capretti». Per caminzones c'è da raccogliere però un altro significato che era conosciuto ai tempi dello Spano e che Paolo Mossa ci ha riferito ottant'anni prima che il Wagner pubblicasse il suo Dizionario Etimologico Sardo. Nel gennaio 1878 il Mossa, annotando la voce silvòne (cinghiale) contenuta in una sua poesia che apparve in «Stella di Sardegna», spiegava che le zanne del cinghiale, oltre ìscàglias e caminzones, venivano pure chiamate silvas (da cui sarebbe derivato silvòne, come già riferito alla voce silva nel precedente capitolo. Con questo significato neppure i linguisti moderni hanno spiegato il termine caminzones; e se ciò è sfuggito allo Spano, non poteva essere certamente ignorato dal Soro, che era contemporaneo del Mossa e bonorvese come questi. Caminzòne, comunque anche nelle diverse varianti, deriva da camu = CAMUS, giusta l'indicazione nel REW, 1565, data dal Wagner. 50 ISCHIMÀRE - VERBO logudorese; deriva da chima = cima, ed indica l'azione di tagliare le cime degli alberi o dei tronchi già tagliati. Lo Spano non riporta questo verbo, mentre riporta il derivato ischimadòrza che spiega per «roncone» Ma l'ischimadòrza non è soltanto l'arnese usato per ischimàre, perché significa più comunemente l'insieme dei rami tagliati cioè delle cime. L'azione di ischimàre è sostantivata in ischimadùra: fagher s'ischimadùra a sas piantas. Il Soro non ha raccolto ischimàre né ischimadùra e non ha integrato nello Spano il significato di ischimadòrza. LOBA - femminile logudorese; paio, coppia, giogo (di buoi). Lo Spano spiega il termine per «gemello» e riporta l'espressione «frades de loba, gemelli». Indica poi loba mer. facendone il rimando a pariga ed infine localizza la voce a Terranova per «veste di sacrista ». Però loba è particolarmente usato per indicare un giogo di buoi (Macomer e paesi del Margh.). Si dice una loba de 'oes, una loba de noèddos (di novelli, cioè di buoi domati a tre anni). E allobàre per aggiogare, appaiare, anche in senso figurato. II Wagner, rifacendosi solo alla «veste di sacrista» indicata dallo Spano, segna : spagnolo loba, baje ecclesiastico. LUZANA - femminile logudorese; lo Spano registra: «argilla; terra luzàna, terra argillosa, cretacea». Per terra luzàna a Bonorva è conosciuta quella terra attaccaticcia non del tutto argillosa, non compatta come l'argilla plastica, esattamente quella terra mista di argilla e arena, talvolta poco rossiccia, un po' grigia, anziché rossa viva o giallastra. Il Wagner, nel Dizionario Etimologico Sardo, registra la voce campidanese luzzu: «luzzu 'e vaccas» piscio di vacche = lotium, lotum (FeW 131; REW 5129)» ed esemplifica: «Fangu in sas luzanas» (Casu in poesia manoscritta); Nuraghe Sa Luzzana presso Oliena; Sas Luzzanas, regione presso Benetutti; in Condaghe San Trullas125: Et ego devili terra in sa luiana suta sancta Victoria. La base sarebbe dunque luliana. Et.? (forse preromano)». Per luzàna si indica anche un nome collettivo di formichine talmente minuscole 51 da sembrare dei puntini grigi di sabbia, la stessa dei terreni arenari misti ad argilla. Sa luzàna prolifica copiosamente nel terreno sciolto, ove si crea degli ambienti sotterranei che sboccano in superficie come crateri di vulcano in miniatura. Vive in colonie numerosissime. Il Soro doveva conoscere sa luzàna anche come formichine. ma questo nome collettivo, non raccolto dallo Spano, è sfuggito alla sua attenzione, come pure all'indagine del Wagner. Siamo indotti a ritenere che l'antica gente di campagna abbia voluto chiamare queste formichine col nome collettivo di luzàna per la loro rassomiglianza con i puntini grigi della sabbia della terra tuzàna, in cui pur si riproducono a miriadi. È un'immagine riflessa nella natura. Luzana deriva certamente da luzu o luzzu = fango, mota. Quale sarà l'etimo di luzu? Si sarebbe indotti a pensare al latino lutum (fang. argilla), da cui con esito più regolare si avrebbe ludu in logudorese (lutu e ludru in nuor.). Proponiamo, piuttosto, di considerare più attendibile la derivazione di luzu dal greco luzron, che significa macchia di sangue, sangue misto a polvere, sudiciume, lordura (in Omero). In questo caso il suo etimo sarebbe preromano, come ha ritenuto in «forse» il Wagner. MORISTELLU - m. logudorese; uva nera da vino comune. Il vitigno moristèllu è logudorese antico, ma si coltiva ancora oggi in diverse regioni della Sardegna. Dà grappoli massicci con acini turgidi e molto succosi. In qualche luogo ha nome moristèddu. Lo Spano riporta muristèllu (assimilando in u la o iniziale) per «uva, bovale». Non si tratta, però, dell'uva bovale, per quanto si rassomigli a questa. Il vitigno moristèllu è di origine iberica: è lo spagnolo «Monastrell» (in francese, è «Morrastel»). Per moristèllu vorremmo azzardare un'ipotesi: che la sua derivazione sia stata in origine dal latino: mori + tellus (terra dei mori, con la s ascetizia). e che dalla Spagna, in questo caso, il vitigno ci sia stato importato dai mori. PITTIMA - femminile logudorese; Lo Spano ci spiega: «applicazione allo stomaco di cose aromatiche fatte a cerotto». Si è rifatto all'italiano «pittima», nella stessa definizione di vocabolaristi 52 del suo e del nostro tempo: decozione con vino e spezie usata come bagnuolo sulla parte del cuore o del fegato; empiastro, cataplasma. Lo Spano non ha raccolto pìttima nel senso figurato che in sardo vive tuttora, né il Soro lo ha colto per le sue integrazioni: in quel senso che manifesta l'atteggiamento o la disposizione di una persona, specie di un ragazzo, ad essere falsamente doglioso o affaticato per non fare un lavoro o per opporre qualsiasi disobbedienza. La frase già nde giughes de pìttimas è di uso corrente. Da pittima abbiamo l'aggettivo pittimòsu, detto specialmente per un ragazzo o di un bambino indocile, che fa il riottoso e piagnucola spesso. Il sardo ha fatto suo l'italiano «pittima» prendendolo di peso dalla terminologia medica e farmaceutica, ma si è arricchita nello svolgimento semantico. PITTIRIACCA - femminile logudorese; fagher sa pittiriacca: è il lavoro di stralcio o dì sfalcio che si fa in viottoli campestri per pulirli dagli sterpi e da piante erbacee offensive, come cardi selvatici, ferule e simili, amputando rovi, biancospini, pruni (prunizza) ecc., affinché vi si possa passare con bestie da soma (cavalli, asini) con carico di grano, uva, latte, legna, fieno ecc. E non soltanto nei viottoli affiancati da muricci, ma anche nei sentieri delle tanche, specie montuose, ove il passaggio è obbligato, per lo più fra cespugli. Localizziamo la voce a Bonorva ed in altri paesi del Logudoro ed oltre. Lo Spano riporta la voce pitturècca, «femminile logudorese (Codice della Repubblica) muro di cinta». E prosegue: «forse da pitteràcca, a cui fa rimando col significato di «viuzza, chiasso, strada». Che per pitteràcca si intendesse un tempo una viuzza, però campestre, non è da mettere in dubbio, ma non una strada, tanto più che la stessa voce viene raccolta poi nel Logudoro dal Wagner, come vedremo oltre, con un significato più esatto e ben definito. Pensiamo che lo Spano siasi rifatto, per la voce pitteràcca, dal Porru, nel termine murixeddu, «s.m., camminu de omini a pei, chiasso, viuzza stretta», e che il termine «chiasso» l'abbia indotto a generalizzarlo in «strada». La voce pitturècca del Codice della Repubblica per «muro di cinta» si spiega per traslato da tutto il 53 significato di viottolo. Comunque il Soro non ha rilevato l'omissione di pittiriacca nello Spano, né lo ha rettificato in pitteràcca. Il Wagner nel Dizionario Etimologico Sardo, oltre un secolo dopo, registra la voce pittiracca, «logudorese settentrionale», localizzandola a Osilo, Pattada, Ploaghe, Codrongianus, Cargeghe e Florinas, dandone la precisa accezione: «viottolo incastrato». Indi soggiunge: «si spiegherebbe con petturi + acca (petto di vacca) indicando un viottolo talmente stretto che ci passa solo il petto di una vacca». Poi ancora riporta da Studi Sardi: «fina a pithurecca dessa vigna». E conclude: «L'origine di questa parola non è bene assodata, ma è probabile che oggi si interpreti come abbiamo detto sopra». La spiegazione di pittiracca data dal Wagner per «viottolo incastrato » è certamente più esatta di quella offerta dallo Spano per la voce pitturècca. Però, con tutto il rispetto che abbiamo per l'autorità del Wagner, non possiamo accettare la formazione ingegnosa che ci ha dato di pittiracca con pitturi + acca (petto di vacca). Noi riteniamo che i due elementi di tale formazione (petturi e acca) siano saltati fortuitamente in mente al Wagner. Né vale a sostegno di essa il raffronto che poi cita con «sa gianna a unu 'oe» (la porta ad un sol bue), per significare che è aperta con un solo battente. Quest'immagine è di chiara evidenza metaforica a paragone del bue solo, spaiato dall'altro bue col quale si aggioga di consueto. Così come pure si dice: «a boe solu» per un coniuge che non è accompagnato dall'altro, col quale è solitamente mostrarsi in pubblico. Mentre il petto della vacca (petturi + acca) non rispecchia con alcuna evidenza la metafora tratta dallo spazio «talmente stretto» del viottolo campestre. Anche perché nei viottoli incastrati o nei sentieri obbligati delle tanche boscose dovevano passare le bestie da soma col loro carico, dalle quali, se mai, andava tratta la metafora, ammesso che fosse possibile. Noi riteniamo che da pittiriacca, il lavoro di stralcio dei viottoli (butturinos), siano derivate le voci pitturècca, pitteràcca (Spano) e pittiracca (Wagner); e ciò in virtù di sineddoche, dando cioè lo stesso nome del lavoro di ripulimento a tutto il viottolo (la parte per il tutto). La derivazione di pittiriacca ci viene suggerita da pittu, punta, estremità, 54 sporgenza: perché fare la pittiriacca nei viottoli e sentieri è lo stralciare sos pittos, ispittire o ispittare i rovi e gli sterpi in genere, tagliare le sporgenze che ne ostruiscono il passaggio. Da pittu, dunque, con l'influsso di ispittire. Il petto delle vacche non può entrare in causa e pertanto non è da considerare neppure ipoteticamente. 55 56 NUOVE INDAGINI SU VOCI ENIGMATICHE La lingua sarda ci offre ancora tanta materia d'indagine ed un interesse così notevole che ci incoraggia a continuare il nostro lavoro di scavo e di decantazione. BAE - Oltre al significato di bava, in logudorese, è voce imperativa a sé stante per la seconda persona del verbo andare: va. È termine verbale di maniera, si direbbe un idiotismo. E' usato in locuzioni caratteristiche: di commiserazione o di sdegno come bae cun paris tuos! (vai con i tuoi pari!); bae chi ses unu miserabile! (va che sei un miserabile!); oppure di commiato augurale come bae in bonora! (va in buon'ora!). In tutti i tempi e modi il verbo andare si coniuga in logudorese (e con qualche variante nel campidanese) nelle forme regolari dei verbi desinenziali in -are, perfino all'imperativo ad iniziare dalla terza persona: àndet, andàmus (-os), andàde, àndene (-ent), per vada, andiamo, andate, vadano. Per la seconda persona singolare si usa il manierato bae, che non è forma tematica nella coniugazione del verbo andare. Tuttavia questo verbo anche alla seconda persona è usato regolarmente in qualche caso, come: e anda! per dire ad uno: e vai! Per tutto ciò la voce bae non è un deverbale. Ma ecco che... (scava scava nei filoni delle parlate sarde), sale all'onore di un'autonoma e compatta coniugazione regolare, col suo tema ba-, del verbo andare, sia pure circoscritto ad un'isola linguistica: il paese di Orune. Infatti ad Orune il verbo andare è coniugato al presente indicativo in questa forma: jeo bao, tue bas, isce bat, nois bamus, bois badzes, iscios bana. (Si noti che il tema ba- viene pronunciato dagli orunesi con la b lenita). Accade pure talvolta di coniugare la prima e la seconda persona plurale nell'ambito di andare: nois annamus, bois annades; ma è evidente che queste due forme sono seriori, importate dal logudorese. All'imperativo, per va si dice bae (sempre con la b lenita) e le altre persone dello stesso imperativo hanno le corrispettive forme del presente indicativo da cui derivano regolarmente, come il più puro esempio grammaticale in lingue diverse. Una così tipica 57 coniugazione del verbo andare, isolata e conservativa soltanto ad Orune (anche a differenza delie più vicine parlate del nuorese) indurrebbe a pensare ad una forma prettamente autoctona. Che abbia avuto origine dall'idioma di qualche clan degli insediamenti preromanici in quel picco aspro di montagna ed abbia resistito, tetragona, alla tardiva latinizzazione della Barbagia? Dobbiamo questa tipica forma al substrato appartenente alle parlate delle tribù nuragiche? Comunque il dato linguistico va posto all'attenzione e dall'acume degli studiosi per il suo peculiare aspetto ed il suo notevole interesse. CANAPIDA - Sonu de canàpida: è un'espressione che per prima volta abbiamo appreso leggendo un documento in sardo, del '400, che il Prof. Alberto Boscolo, già rettore dell'Università di Cagliari, ha rintracciato nel 1953 nell'Archivio della Corona di Aragona in Barcellona Di questa espressione avevamo intuito con esattezza il significato logico, ma non conoscevamo alcuna accezione del vocabloo canàpida nel sardo antico. Ci era venuto incontro un vecchio di Dorgali, Pantaleo Cucca, con una spiegazione che abbiamo ritenuto attendibilissima. Canàpida, meglio cannàpide secondo la parlata dorgalese, altro non è che un rudimentale strumento di canna da agitarsi con una certa energia e con destrezza per emanare dei rumori striduli e assordanti atti a mettere in fuga passeri, cornacchie, serpi, volpi, donnole ecc. (aes, terpes e urpes) dai seminati in maturazione, dagli orti e dalle vigne. «Si prende una canna lunga m. 1,50 — ci spiegò il Cucca — e la si spacca perpendicolarmente per la lunghezza di un metro: all'estremità inferiore della spaccatura la canna viene legata per dieci cm. circa, con delle striscie di pelle di gatto selvatico (corrias de gattu areste): così la cannàpide è bell'e fatta e viene impugnata al di sotto della legatura, e fatta azionare. Le striscie di pelle schioccano come tante fruste obbligando la canna spaccata alla opposta estremità ad emettere suoni striduli continuati. La cannàpide era molto in uso nel Dorgalese fino alla metà dell' '800. Un vecchio ergastolano, graziato verso il 1890, ridottosi a 90 anni a 58 fare il guardiano delle vigne, orti ecc., ricordando da giovane la vecchia usanza della cannàpide per spaventare ed allontanare sas tuttinas (animali nocivi, volatili e no), se n'era costruita una da sé e se ne serviva a profitto del suo ultimo mestiere». Chi scrive ricorda di aver conosciuto da ragazzo analogo strumento e per lo stesso uso nel Logudoro, chiamato furriolu 'e canna, di costruzione meno semplice della cannàpide dorgalese. Ricorda anche che il poeta Peppe Calvia di Mores, in un sonetto in cui lamenta l'incuria di un guardiano di una sua vigna, sul finire di settembre del '900, menziona lo stesso strumento con questa incitazione: «Zeccala sa cannàiga, perdeu». Canàpide, cannàpide, cannàiga: una stessa voce variata. IGUMARRAS - E' quasi un rebus. A Tonara il termine sopravvive, nel significato di lampeggio in lontananza e senza tuono, attraverso dei modi di dire. Per es.: «Nottesta gioganòis su igumàrras» (questa notte il lampeggio sta giocandosi). Caratteristica e singolare la forma gerundiale di gioganòis, a differenza del logudorese gioghèndesi. Ed anche: «Su igumàrras si nd'est arrìtiràu» (il lampeggio ha cessato). Igumàrras è parola composta: da igu (vitello), che in logudorese è biju, da cui la forma barbaricina bigu, che davanti a vocale perde la b e per definitiva elisione è rimasto igu (su igu). E marras...? Assume diverse accezioni: il pi. di marra, zappa larga; la dentatura dell'uomo e delle bestie (marruzza si dice per i denti di un bambino); i denti di un rastrello, di un pettine e simili; significa anche i tagli o le pieghe che assumono, per usura di lavoro, zappe, roncole, coltelli ecc. dalla parte del taglio, come se questa fosse ridotta a denti: su zappu est tottu a marras (la zappa è tutta a denti o pieghe, non è pili a filo). E da marras si ha il verbo ismarrare per indicare la riduzione della lama o del taglio a crepe o pieghe. In che rapporto e con quale immagine si accosta il termine marras ad igu per significare insieme il lampeggio secco in lontananza? Nessun vocabolario sardo fa menzione di questo termine. Né ci è dato sapere che ne esista traccia in carte antiche. I linguisti lo ignorano. Lo Spano riporta, alla voce biju (vitello), lo 59 specifico biju marinu, per lampo a secco, localizzandolo a Cuglieri. Non v'è dubbio che esiste una certa parentela del cuglieritano biju marinu (a Santulussurgiu, invece. si è aggiornato in lampittu marinu), col igumàrras tonarese. Ma questo termine, così strano ed impenetrabile nella derivazione di marras e nell'integrazione di questa seconda parte ad igu (vitello), ci lascia inaccessibile l'erta per risalire alla genesi della sua semantica. ISCADANCARE - E' verbo della parlata di Tonara e delle contrade finitime. Sta per staccare, distaccare. Indica particolarmente lo sbrancare dei tralci minori e superflui dal ceppo delle viti: iscadancàre sas bides. In logudorese ha il suo sinonimo nel verbo ismamàre usato per indicare il medesimo lavoro nelle viti. Ismamàre, da marna, vale per staccare dalla madre, per slattare (vitelli, puledri, capretti ecc.). Ismamàre sa 'inza è come dire che si staccano i polloni bastardi dal ceppo-madre nelle vigne, specie dal rizoma. Se ismamàre è un denominale di marna (madre), iscandancàre deriva da cadànca, che è un parassita che si attacca in primavera e nell'estate alla pelle delle bestie (cavalli, vacche, pecore, cani). E' la piattola degli ammali che ne succhia il sangue; al pi. le zecche. In logudorese Si dice cadenància, da cui è derivato, nelle parlate montagnine, cadenànca, e per sincope cadànca. Inutile dire che cadànca è term. ignorato dai nostri vocabolaristi. LUDRAU - Torniamo a questo termine o meglio ai suoi antenati. Abbiamo citato qualche toponimo che si rifa alla voce bolutràvu del Condaghe San Pietro Di Silki, 92, 309, ed alla voce gulutràu del Condaghe San Trullas, 290; precisamente: Su boludràu in territorio di Macomer (che va rettificato in Su bonudràu, senza che per questo ne sposti la derivazione), e Su ludràgu de Fresàghes in territorio fra Neonelli ed Austis. Troviamo che il toponimo Bonudràu macomerese è stato citato da Antonio Sanna, assieme al top. Boludràu in agro di Anela, nelle sue «Note sardo-logudoresi» pubblicate in «Studi sardi» (Sassari, 1955). Ora possiamo aggiungere un altro consanguineo: il top. Buludràu (con l'articolo, 60 S'uludràu) in territorio di Nughedu San Nicolò, precisamente in un sito alquanto acquitrinoso, secondo una recente informazione che dobbiamo alla cortesia del poeta nughedese Salvatore Corveddu. Ma in Sardegna questi toponimi consanguinei sono certamente numerosi e stanno a dimostrare che la voce bolutràvu, riconosciuta dal Bonazzi come latina nell'antico codice di San Pietro di Silki, confermata poi dalla voce gulutràu del San Nicolò di Trullas, non solo non è estinta, contrariamente a quanto affermò il Wagner, ma è copiosamente tramandata in toponimi che ricorrono in citazioni della gente di campagna, come negli atti notarili, catastali ecc. Così come sopravvive nell'uso corrente delle parlate sarde la voce ludràu (per fanghiglia, acquitrini e simili), che è il continuatore moderno di VOLUTABRUM, come ha dimostrato Antonio Sanna, e da cui derivano pure le voci riportate da quei due codici antichi. TURA - E' voce che ricorre oggigiorno nell'espressione logudorese nieddu che tura (o che-i sa tura), simile a quest'altra: nieddu pìdigu, cioè nero come la pece (pighe, da cui l'aggettivo Pìghidu divenuto pìdigu per metatesi). Ausonio Spano''' così inizia la sua bella poesia «Temporada»: «Nues fittas che tura / s'accaddan in s'aera» (nubi fitte come tura s'accavallan nell'aria), in cui la similitudine delle nubi con tura sta in forza dell'aggettivo pi. fittas e non dell'aggettivo pi. nieddas. Qual'e il significato di tura? E la sua derivazione? Il Can. Spano raccolse questo termine e ce lo spiega semplicemente per «nerezza». Poi esemplifica: «Nieddu che tura». Ma se tura sta per «nerezza», allora nieddu che tura sarebbe come dire nieddu che nieddura: il che non convince, ed è per lo meno una spiegazione facilona. Sentiamo il Wagner: «Tura, logudorese, «nerezza». E qui si rifa allo stesso Can. Spano. Indi cita i versi riportati più sopra di Ausonio Spano (da «Cantigos de su 'ezzu», pag. 97) ed assimila poi la voce tura = ARTRURA (Salvioni, RIL XLIX, 770; REW 753) osservando che il primo r sarà stato eliminato per dissimilazione ». Infine rimanda per analogia la voce tura a tremèntu, trumèntu, (che spiega «soprattutto per nicotina della 61 pipa, trumèntu della pipa, Nuoro») assimilandole = ATRAMENTUM (REW 758). Parecchi anni prima che il Wagner pubblicasse il suo Dizionario Etimologico Sardo avevamo trattato nella rivista S'ISCHIGLIA la voce tura alla cui spiegazione il poeta lussurgese Bachisio Asili ha voluto dare il suo contributo riportando un distico di Tibullo: «Redderetque antiquo menstrua tura Lari». E soggiungeva: «è usato dall'accorato poeta latino nella elegia (III), "Ibitis aegeas sine me, Messalla, per undas etc." nel significato di incenso (si restituirebbe all'antico focolare l'incenso di ogni mese); e poiché l'incenso produce fumo, spesso denso e nero, non sarebbe fuor di luogo, secondo il mio modesto avviso, pensare che i nostri lontani antenati logudoresi abbiano derivato tura da tura latino ed esprimendo "nieddu che-i sa tura" abbiano inteso dire "nieddu che fumu", analogamente a "nieddu che pighe" e "nieddu che trumèntu (su 'e sa pipa)"». Per l'Asili, dunque, sa tura non sarebbe altro che fumo denso e nero, quello che s'innalzava nei focolari sacri ai domestici Lari e dai sacrifici delle are saliva al cielo in fitte nubi d'incenso. E con la sua interpretazione prendono chiaro senso i versi di Ausonio Spano in «Temporada»: «Nues fittas che tura (come fumo) / s'accaddan in s'aera»; interpretazione suffragata, inoltre, con l'espressione di un poeta ploaghese dei primi dell'SOO, tale Pietro Pintore, che in una poesia satirica, in cui finge di essere ritornato dall'inferno, dice che i dannati di ogni ceto e condizione «nieddos sunu pius de sa tura», come a volerli dipingere neri più del fumo infernale. Noi pensiamo — a margine delle spiegazioni date dai linguisti del vocabolo tura — che i nostri lontani antenati logudoresi, come pensò l'Asili, abbiano assimilato il tura latino nel significato di fumo denso e nero: che altrimenti non avrebbero chiaro senso i versi riportati dal thiesino Ausonio Spano e dal ploaghese Pietro Pintore, i quali danno la prova non facilmente confutabile, più di ogni altra disquisizione, della bontà di tale significato. Riteniamo perciò di poter postulare la derivazione della voce logudorese tura dal latino tura (tus, turis) data dall'Asili. 62 ULTERIORE CONTRIBUTO ALLA SALVEZZA DEL PATRIMONIO LINGUISTICO SARDO LIBIDE - Ritorniamo a questa voce (aggettivo s. logudorese) che abbiamo già trattato indicando il suo significato di lèbiu, lèzeri (leggero) nel vernacolo di Nughedu San Nicolò. Abbiamo trovato recentemente in «Note lessicali sarde», pubblicate in «Archivio Storico Sardo» (volume VII, 1911) dal Prof. Giovanni Campus, il termine lìbides. «Si ode questa voce — ci spiega il Campus — nella frase fora e lìbides» (la e isolata dovrebbe scriversi 'e perché rappresenta la preposizione de) «e prende vari significati secondo il contesto: così fora 'e lìbides significa "parlar senza capo né coda"; est bessidu fora 'e libides, "ha passato la misura nel parlare" e simili. Non è altro che limites e ci dà un nuovo e bell'esempio di scambio fra b ed m intervocalici». Da dove il Campus abbia tratto il vocabolo libides, se da qualche antico testo o dall'ancora viva parlata di qualche contrada o paese dell'area del logudorese, non ci è dato sapere. Il significato di lìbides per limite, dato dal Campus, parrebbe a prima vista non concordare col significato di lìbide inteso oggi a Nughedu S. N.; come pure le espressioni fora 'e lìbides, est bessidu fora 'e lìbides, nel senso riportato dallo stesso Campus, non rispecchierebbero le espressioni mi sento unu pagu lìbide (un po' leggero di febbre sofferta, di un mal di testa e simili), ses arende a lìbide (stai arando leggermente, non in profondità) da noi citate nell'uso del vernacolo nughedese. Ma se si pensa ad uno svolgimento semantico di lìbides = limite, non può apparire strano che il lìbide di Nughedu, certamente seriore, si debba intendere pure derivato da limites; ed il sentirsi unu pagu lìbide (più leggero di febbre, sollevato da un malessere) è come esprimere il concetto di aver superato o quasi un limite (della malattia); così come il dire ses arende a lìbide (stai arando in superficie) sta per indicare che i solchi risultano non in limite di profondità, meno della misura consueta o stabilita. Così dal lìbides si può ritenere di essere giunti, per evoluzione semantica, a lìbide. Il Campus, che ce ne ha dato il bandolo, avrebbe rivelato così il vero volto della... sfinge. 63 MALEVALDÌA - E' sostantivo femminile logudorese; significa maleficio per fattucchieria. Non è riportato dai nostri vocabolaristi e non ne abbiamo avuto traccia in studi di linguistica sarda. Il termine è usato da Paolo Mossa nella sua bella lirica «In sa domo de campagna». All'arrivo delle rondini, ai primi tepori primaverili, il poeta le invita a prender dimora nella sua casa campestre, ove erano nate l'anno prima; ma vedendo che esitavano a farlo e si comportavano come sospettose verso di lui, si domanda un po' amareggiato; «Cale tortos, cale fattu / bos hapo malevaldìa? » Quali torti, quale maleficio vi ho fatto? Poteva il poeta aver fatto delle fattucchierie a loro danno? In traduzione libera il Mossa aveva reso gli stessi versi senza ricercatezza: «Qual torto, quale offesa v'ho io mai dato?» Ma nella stessa lirica il poeta fa seguire subido dopo due esempi di maleficio che per fattucchieria si commettevano crudelmente accecando dei rondinini nel nido o squarciando il petto a delle rondini per ingoiarne il cuore ancora palpitante. E quegli esempi spiegano più compiutamente il significato di malevaldìa. Questo termine, pensiamo, sarà stato in origine malefadìa, da malu fadu (fato maligno), da cui l'aggettivo malefadàdu per misero, infelice, sfortunato. La v intervocalica di malevaldìa segue in questo caso lo svolgersi naturale, nel logudorese, del suono della f in quello della v (similmente a certi casi nel francese) con la 1 ascetizia. L'uscita in -dia nel lessico sardo è comportamento comune per diversi nomi astratti, come biadìa (beatitudine, felicità), primadìa (primaticcia), redadìa (tardiva), nadìa (nativa ed anche stirpe), maladìa (malattia), romadìa (raffreddore), pesadìa (allevamento, educazione), masedìa (mansuetudine), bagadìa (libera, nubile) e nel nome concreto tegadìa, bozzacchio, escrescenza del fiore del prugno in luogo della susina non andata a compimento. («E cando 'oliare s'est bida /in tegadìa sa pruna». - P. Mossa). Similmente malevaldìa = malefadìa, ora non più usato a Bonorva se non in bocca di qualche novantenne. 64 SARAU - Termine logudorese antico: tripudio, scialo, festa. Per lo Spano è semplicemente «stravizio». Ma ecco Pietro Casu nella poesia «Sa recuida»: «Dulze pinnetta, s'unicu sarau / dés esser tue de su viver meu, / lontanu a degni miseru ludrau». I cui versi indicano le feste, le gioie pure che può dare una misera capanna, e non certametne degli stravizi. Sentiamo ora un poeta incolto di Bonorva, un certo Gavino Ruggiu (più comunemente Tiu Ruzu), vissuto a scavalco fra r800 ed il 900: «Canes de fogu riccu, / chi mai no nd'han bidu 'e sarau: / bi nd'hat unu piticu, deh! ch'ìstat baulende ciu ciau; /e cancaradu e siccu / chi faghet a sa lande che ispau». E' chiaro che il termine sarau, intravisto per la «dulze pinnetta» del Casu, come nei cibi gustosi ed abbondanti negati ai cani di «fogu riccu» del Ruggiu, significa ricchesa, recreu, logu recreadu e bonurecatu. Inoltre Pietro Cherchi, il cieco poeta tissese, in Mulas (pag. 450): «Musicas e saraos dogni die / ti faghen che reina coronada». E Demonti Licheri in «Raccolta» edita a Oristano (pag. 211): «Sas gherras, sos saraos, sos cumbidos...». Il vocab. sarau è il sarao spagnolo, anche il sarau catalano, precisamente come in sardo: «reunion notturna anche hay baille o musica». SEBEZE - Questo vocabolo, sconosciuto ai più in Sardegna, ci fu riferito dal compianto amico Salvatore Cambosu. L'aveva pronunciato sebètze. Ci spiegò che si trattava di un amuleto in pietra nera che si appendeva ancora, come in tempi arcaici, al collo dei bambini di Barbagia per scongiuro delle tentazioni e contro la iettatura: tali erano le sue credute virtù apotropaiche. Lo si può confrontare, anzi rassomigliare ad un altro amuleto, pure in pietra nera, che in Logudoro e regioni finitime, fino a circa mezzo secolo fa, messo al collo dei bambini per fugarne il «malocchio», appariva ancora un residuato della idolatria praticata dai sardi antichi. Il Cambosu ne scrisse anni dopo nel suo composito e favoloso «Miele amaro», in un capitolo che s'intitola «L'amuleto nero». «Gli pendeva al collo — Egli ci narra — la pietra nera, su sebèze, e diceva che quell'amuleto era più forte della Tentazione, e che non era poi tanto raro. I Bambini senza il sebèze inciampano 65 spesso per lo sgambetto del Maligno. Ma forse lo diceva per prendersi gioco di chi lo interrogava, e non del tutto scettico del potere apotropaico di quel suo talismano». Così introduceva quel capitolo il Cambosu, per poi evocare San Gregorio che nel 594 «parla ancora di barbaricini che vivono «ut insensata animalia», che non conoscono il vero Dio, che adorano «Ugna et lapides». Lapides, pietre: e quel bambino, battezzato al fonte battesimale di Gavoi, senza saper nulla di tutto questo, era ancora tanto «antico». Indi, chiudendo il capitolo: «L'idolatria particolare all'adorazione di quella pietra andò nei secoli decadendo in superstizione. E la superstizione dura ancora in quella contrada, dove la pietra nera sebèze abbonda e dove ancora le si attribuiscono virtù apotropaiche. L'etimologia stessa del termine suggerisce l'idea della venerazione». Dell'«amuleto nero» possiamo dire di saper tutto, eccetto però della sua etimologia che il Cambosu lascia indovinare, più che intravedere, quando scrive che «suggerisce l'idea della venerazione». Ha voluto forse indicare nell'amuleto nero una pietra scelta (eletta per occulto potere) come fosse sebèze derivato da sèberu, da sebèstu o da altro deverbale: di seberàre, sebestàre, sebertàre, assebertàre? Nessun vocabolario sardo ci ha potuto suggerire qualche idea in proposito (anzi non registra neppure il termine), né altre pubblicazioni di linguistica sarda che pure abbiamo consultato. E' molto probabile che sebèze derivi da sebèstu, che si raffronta col greco sebaste che significa veneranda. A meno che non sia questo il bandolo certo, come noi riteniamo, e venga fuori chissà quale etimo per bocca dell'oracolo. TRAJANU - E' aggettivo m. logudorese, per mandròne, pigro. Il termine ci perviene da Bulzi ed il poeta Giorgio Pinna, bulzese, lo ha usato in una sua poesia: «Su puddèrigu trajànu» Lo Spano ignora questo termine, ma alla voce traja del suo vocab. ci indica questo sostantivo femminile merid. per «trava, travicello». E' pensabile che l'aggettivo logudorese trajànu sia derivato dal sostantivo tràja (non importa che si sopravvissuto nel 66 campidanese), sebbene il Wagner riporti traja, «logudorese settentrionale», limitatamente al significato di «macchia folta ed intricata, per lo più spinosa (una — de rù, de prunizza) una folta macchia di rovo, di pruni»; e trajòne per «macchione folto e intricato». Trajànu fa pensare anche ad una derivazione dal latino trahere o da traha, treggia, slitta di montagna per trasporto di legna, paglia, fieno ecc. In logudorese la treggia è chiamata carruga, anche carrùca, e carrugàre per trasportare grano mietuto, legna ecc. con la carruga (specialmente in montagna e posti scoscesi, ove non si poteva passare col carro agricolo), la quale, per la sua costruzione a mezzo di travi rudimentali, ha un senso comune con traja (trava). Il trahere della treggia (carruga) offre anche il senso figurato del cavallo trajànu dall'andatura stentata nel tirare il carico, quindi anche lentamente pigro. TERPES e URPES - Il primo vocabolo è nome collettivo che indica l'insieme dei rettili. È derivato dal latino serpens con lo scambio della iniziale s in t. Il secondo vocab. è pure nome collettivo che indica l'insieme degli animali felini (volpi e gatti selvatici) e anche dei mustelidi (donnole, puzzole, martore). È derivato dal latino vulpes, per afferesi della consonante v e lo scadimento della consonante l in r. E' noto alla periferia di Cagliari il Monte Urpinu, così denominato per le tane delle volpi che vi abbondavano anticamente. Tanto terpes come urpes sono voci ignorate completamente dallo Spano. 67 68 DI ALCUNI TOPONIMI Quanto sia azzardato e rischioso lo studio per la ricerca dell'etimologia dei toponimi lo sanno per esperienza molti di coloro, filologi e no, che vi si sono cimentati. Qui non s'intende, naturalmente, far riferimento a dei toponimi di facile spiegazione, cioè di quelli che si spiegano da se stessi, in quanto si presentano coi propri connotati scritti in fronte, come: Sant'Antioco, Quartu Sant'Elena, Sestu, Decimomannu, San Sperate, Serramanna, San Gavino, Fluminimaggiore, Perdasdefogu, Lunamatrona, Villanovafranca, Santu Lussurgiu, San Leonardo, Tresnuraghes, Villanova Monteleone, Pozzomaggiore, Monterasu, Montesantu, Monteacutu, Castelsardo, Logusantu, Portotorres, Terranova, L'Asinara, La Maddalena e così via. Ma neppure s'intende far riferimento a dei toponimi, diremo così, fotogenici, come: Carloforte (da Carlo Emanuele III detto «il forte»); Teulada (da tègula o teula, che è l'interpretazione ovviamente più popolare, nonostante la derivazione fatta dal Nurra dal fenicio THQALATH, che altro non è che un verme, e l'etimologia dataci dal Can. Spano, in THEALATH, che vuol dire canale); Siliqua che deve il nome ad una pianta cespugliacea, che alligna abbondantemente nel suo territorio: l'anagiris fetida; Domus Noas Canalis (case nuove del canale, in quanto nuove e vicino al fiume); Monastir (da Monasteriu); Villacidro (Villa dei cedri, chiamata in campidanese Biddaxirdu);TorraIba (da Turris alba, cioè da una torre alba, bianca, che esistette certamente sul posto, forse in tempi romani, costruita con pietre calcaree di cui fa sfoggio la sua natura geologica); ecc. Né s'intende far riferimento neppure a dei toponimi dal volto storico ben riconosciuto, come: Cagliari dall'antica Càlaris o Càralis, oppure Karales delle più antiche iscrizioni; Iglesias (corruzione di Eglesias), l'antica Villa Ecclesiarum, Villa dì Chiesa; Fordongianus, anticamente Forum Traiani, perché vi si stanziò una colonia al tempo dell'imperatore Traiano; la Barbagia, regione centrale dell'Isola che si divide in Barbagia di Ollolai, Barbagia di 69 Belvì e Barbagia di Seulo: era anticamente denominata Barbaria, come da iscrizione romana; Paulilàtino (che i continentali pronunciano per la prima volta Pauli Latino e molti sardi ritengono che il paese sia così denominato per la sua origine latina) deve la sua etimologia da padule a làtere, in quanto il paese aveva intorno molte paludi; Macomer (in log, odierno Macumere, anticamente Macumele) ha derivato il nome dalla Macopsìssa dei romani. Vogliamo invece riferirci con impegno ad alcuni toponimi non facili a spiegarsi etimologicamente, a quelli che hanno fatto da rompicapo a più di uno studioso. Chi scrive, ad esempio, si è cimentato per trovare l'etimologia della sua Bonorva, non risultandogli che altri l'abbiano data alquanto attendibile. Ecco il sugo delle sue ricerche in proposito: BONORVA - C'è chi l'avrebbe definita per Buona Terra (sarebbe stato Piero Cao di Cagliari, meglio conosciuto sotto le vesti arbitrarie di «Padre Cao», a dare quella definizione trovandosi a Bonorva, parecchi anni orsono, in escursione archeologica): ma se il primo elemento, bono, si spiega da sé, interpretare il secondo, orva, per terra è per lo meno azzardato. II Can. Spano, nel suo «Dizionario Geografico», fa derivare il nome Bonorva dalla radice Bono, che nelle carte antiche sarebbe Boon da Ban, cioè edifizio, casa, nonché dall'aggettivo arba, cioè grande: per cui significherebbe «abitazione distinta». Ora è risaputo che Bonorva ebbe la sua origine dal borgo chiamato Moristene (dal latino Monasterium), sorto prima con capanne di frasche e poi, fino al 1630, che fu eretto a contado del feudo di Costa di Valle, fu costituito da casupole in cui abitavano dei poveri pastori o contadini: per cui non poteva possedere, l'originaria Bonorva nessun «edifizio» di pregio, nessuna «abitazione distinta». All'autore di queste queste note la spiegazione datane dallo Spano non soddisfa, anche se elaborata con dotte pezze d'appoggio. Egli ritiene che il toponimo Bonorva, scritto Bonorba in carte antiche, abbia il Bon prefisso nel significato sardo di bona e si componga pure con l'aggettivo arba, però come femminile dell'arcaico arbo, 70 cioè acerbo, aspro, anche fiero; perché acerbo, cioè crudo, incolto fu il suo territorio; aspra, accidentata, impervia è la posizione di questo, fra coste e valli; fiera ad un tempo nell'aspetto. Per tali caratteristiche Sebastiano Satta cantò in «Ditirambo di giovinezza»: Ho un sogno nell'anima torva, O uccellin mio di primavera: Vo attraversar la Costera, Vo entrar nell'aspra Bonorva. Aspra, dunque, cioè arba arcaicamente. Ma enunciamo alcuni toponimi esemplari. ELMAS - L'avevamo creduto un toponimo spagnolo derivato da El Mas, però nell'erroneo significato de «il più grande». Il Prof. Antonio Sanna, docente di linguistica sarda all'Università di Cagliari, ci ha rattificato la derivazione di Elmas ed il suo significato. Ci ha richiamato anzitutto Pasquale Cugia (nel «Nuovo Itinerario dell'Isola di Sardegna», Ravenna 1892, vol. I pag. 189) riportando questa breve e dubitativa spiegazione: «Il nome attuale proviene dall'essere il paese più vicino a Cagliari dalla parte occidentale, forse anche da corruzione dell'antica parola Mansus». Indi esemplifica: «In italiano abbiamo "maso" e "manso". Il Vocabolario Etimologico Italiano di Angelico Prati (Torino 1951) spiega: "rimando maso a manso, sostantivo m., podere di misura determinata"; bassolatino mansus, "la terra e la casa del coltivatore" (Rossi, Glossario ligure, Appendice 177); bellunese mas "podere con abitazione"; valsugano maso "casa isolata, di solito con podere annesso"; trentino mas "podere, masseria, gruppo di case coloniche, casale"»; ecc. ecc. Ci riporta poi da Emidio de Felice (ne «Le coste della Sardegna», Cagliari 1964, pag. 95), il quale «fu per anni incaricato di glottologia alla nostra Facoltà»: «ELMAS: ... alla base è qui il catalano mas (dal latino medioevale ma(n)sum derivato dal latino mansus, participio perfetto di manere, "rimanere"; maso, "fondo agricolo", con l'art, determinativo nella forma ridotta el, attualmente agglutinato all'elemento sostantivale e non più 71 avvertito e distinto da questo - tanto che l'accentazione stessa è spostata sull'articolo (Èlmas) - ma sino al secolo scorso era ancora sentito come articolo e scritto infatti generalmente staccato. Nel Dizionario di G. Casalis è infatti registrato come El Mas ed el Mas è la forma usata, nei primi del Settecento, da Vincenzo Baccallar y Sanna, Governatore di Cagliari e di Gallura, mentre nella Relacion al Rey di Martin Carille (Barcellona 1612) è ancora usata la forma con l'art, più antico, e specifico dell'uso di Barcellona e Valenza, Lo Mas. Poiché il nome locale è tuttavia su Masu, e l'etmico Masesi, qui insorge il problema se la denominazione originaria è quella catalana, oppure quella sarda, di cui El Mas sarebbe una traduzione catalana seriore, poi affermata nell'uso della capitale e nella toponomastica ufficiale: pare tuttavia decisivo per la tesi di un'originalità della denominazione catalana il fatto che masu, come appellativo, non è continuato nel campidanese — anche se è sempre possibile che un elemento latino sia continuato soltanto nella toponomastica e non nel lessico — e che Elmas, fin dal periodo della conquista, è sempre stato un centro di preminente interesse catalano». Ed il Sanna soggiunge: «Fin qui il De Felice il quale, in nota, ricorda la fondazione dovuta a Don Alfonso Infante d'Aragona della chiesa, ora distrutta, di San Giorgio di Elmas (riprendendo dall'Arco) e respingendo i favoleggiamenti di un'origine fenicia o araba proposti dallo Spano. Per conto mio non sono del tutto d'accordo con il De Felice per l'origine catalana e per l'argomento "decisivo". Infatti è per me importante il fatto che l'etmico sia masesu e non elmasesu ed il nome popolare sia su Masu: difficilmente si sarebbe tradotto dal catalano in sardo; assai più facile e logico il contrario. Si pensi a Muristeni divenuto Monastir; ed il caso non è isolato. Con il valore di masu, mansum, si usava nel sardo antico, forse più comunemente, masone da mansione della stessa origine. In un documento arborense dei primi del XII secolo, accanto a Nurage Nigellu (Nuraxinieddu) figura Masone de Capras (Cabras): due villaggi che vengono posti sotto il diretto controllo del giudice e pertanto affrancati da ogni altra dipendenza ». 72 A rispecchiare le indicazioni toponimiche del Sanna vediamo anche noi, ora, l'estendersi in altre regioni italiane dei toponimi che ci appaiono della stessa origine e con lo stesso significato, come Masone in provincia di Genova e Mason Vicentino. Ed in perfetta aderenza al bellunese mas ed al valsugano maso citati dal Cugia, i masi delle campagne dell'Alto Adige, come il maso Unterrschbaumer di Spinga presso Bressanone. Le ampie e dotte citazioni del Sanna e la sua conclusione su Elmas ci hanno proiettato in chiara luce la derivazione ed il significato di questa denominazione. Noi, ch'eravamo ancorati alla voce El Mas, riportata perfino dal Dizion. del Casalis (compilato per la Sardegna dal Padre Angius), edito a Torino nel 1851, abbiamo creduto, senz'aggiornarci a studi più recenti, ad una semplicistica spiegazione di Elmas reperita intorno a mezzo secolo fa, per altro basandoci sulla definizione data dallo Spano per mas e dalle correlative del «Nuevo Diccionario Francès- Espanol por D. Vincente Salvà» (Paris). Ora, lieti di poterci ricredere, conosciamo esattamente il significato originario di Elmas, per podere con abitazione, masserìa, casale, borgo. E, pur restando il toponimo formato dal catalano el Mas, siamo pienamente convinti che la denominazione derivi tuttavia dal lessico sardo divenuto toponimo in Su Masu, appellativo popolare usato ancor oggi a Cagliari, a Elmas, Assemini ecc. e che già conoscevamo, come pure l'etmico masesu. Apprezzando pertanto la rettifica del Prof. Sanna, sentiamo di far doverosa ammenda dell'errore in cui eravamo inavvertitamente caduti. Così il toponimo Elmas, che era apparso come un enigma a taluni studiosi, è oggi chiaramente rivelato dalla sua carta d'identità. LOGUDORO - E' la regione che confina al sud con la Campeda; ad ovest col Goceano (Sa Costerà) e, continuando a destra dei territori di Buddusò e di Ala dei Sardi, con la Baronia di Lodè fino a Olbia; al nord con la Gallura e con l'Anglona, riprendendo poi il territorio che da Sassari s'incunea fino a Portotorres, ad est con la Nurra e col Mar Tirreno. Nel suo entroterra meridionale abbiamo il Meilogu 73 (Medius locus), luogo di mezzo, perché situato fra due feudi: quello di Caput Abbas e, più sopra, quello di Mores. Il toponimo Logudoro appare semplicisticamente agli incolti come luogo d'oro. Al Can. Spano, fra le tante opinioni sulla etimologia di Logudoro, sembra che sia una corruzione da Luquido (populi Luquidonenses), antica città vicino a Oschiri, ove i Romani edificarono Castra; e da Ore, una curatoria menzionata in antiche carte. Per cui Logudoro sarebbe Logu d'ore. Ma le opinioni sono... opinioni. E di congetture non ne ha fatto soltanto lo Spano, che da buon orientalista vede la derivazione di toponimi sardi e di molte voci del nostro lessico per 10 più da nomi e vocaboli arabi, fenici, greci ecc. Sentiamo anche Giandomenico Serra, piemontese, già docente di filologia alla Università di Cagliari; il quale al nome Logudoro e ad altri nomi locali uscenti in «oro» ha dedicato un saggio in «Lingua Nostra» (Vol XVI, fase. 2, giugno 1955), ritiene che il nome «Logudoro», nella sua struttura originaria di Locu d'ori, sia stato introdotto in età romana e riproduca il nome di Oris della Mauretania. Quali delle due etimologie citate è la più attendibile? Quella del Can. Spano che la fa derivare da Luquido, antica città nell'Oschirese, e da Ore, antica curatoria forse del medesimo territorio? Oppure è da prendere in considerazione quella prospettata dal Prof. Giandomenico Serra attraverso la struttura originaria di Locu d'ori del moderno Logudoro ed in virtù della riproduzione del nome Oris della Mauretania? L'autore di queste note sarebbe più propenso ad ammettere un qualche fondamento nell'opinione del Serra, dato che anticamente alcuni popoli della Mauretania si stanziarono in Sardegna, però al sud, precisamente nel Sulcitano, i cui abitanti vengono ancora oggi chiamati maurreddus (da maurus). Tuttavia rimane perplesso nel considerare che non è certamente un buon metodo d'indagine quello adottato da parecchi studiosi (storici o linguisti) nel far trasmigrare in Sardegna nomi di regioni africane e del vicino oriente, senza tener conto che la similarietà di quei nomi con dei toponimi sardi può essere del tutto fortuita. C'è stato chi, poco più 74 d'una ventina d'anni orsono, ha tirato fuori tutta una serie di nomi di località non soltanto di paesi del Mediterraneo, dall'Anatolia all'Africa ecc., ma addirittura del centro dell'Asia, concordanti (almeno graficamente) con toponimi sardi, perfino col radicale nur di nuraghe; e qualche altro dalla fantasia fervida ne ha introdotto dalla Svezia e dalla Norvegia facendo venire in Sardegna dei vichinghi, che qui da noi non sono mai apparsi. Ecco perché si corre molto rischio intraprendendo lo studio etimologico dei toponimi e diffidiamo di certi risultati congetturali. Per concludere questa nota sul toponimo Logudoro non possiamo fare a meno di riferire un'indicazione che ci è stata data qualche tempo fa: che il nome Logudoro è tratto da Luogo delle torri, ottenuto per corruzione da locutorre, precisamente in virtù delle torri esistenti lungo il litorale di questa regione. Ne farebbe fede attualmente il toponimo Portotorres. E questo parere ci è stato confermato più recentemente dall'amico Pietro Mugoni, studioso di cose patrie, autore della «Storia Economica e sociale della Sardegna dell'Evo antico» (Editrice Sarda Fossataro, Gennaio 1957). Se il nome Logudoro equivale veramente a luogo delle torri, la soluzione dell'enigma si è rivelata ancora una volta nell'uovo di Colombo... NURRA - E' la regione che confina alla destra col Logudoro, a sinistra col littorale tirrenico ed al nord col Golfo dell'Asinara. Nurra, dalla radice nur come in nuraghe, viene appellata a Oliena una cavità in roccia, grotta o caverna, mentre la stessa denominazione prende a Orune un mucchio tondeggiante di pietre o di forma conica. Dalla fusione unitaria dei due significati opposti si ha la configurazione, dataci da archeologi moderni, di nuraghe come mucchio cavo. Nurra è certamente il nome riprodotto dalla denominazione sarda di caverna, data la presenza di grotte al Monte Nurra di questa regione, forse originate da antichissimi scavi minerari. 75 OGLIASTRA - E' la regione che si estende tra Cala di Luna nel Golfo di Orosei fino alla foce del Flumendosa nei pressi di Villaputzu, comprendendovi il Salto di Quirra; e dal litorale tirrenico fino a confinare a sinistra con la Barbagia di Ollolai, i Monti del Gennargentu, la Barbagia di Seulo, il Sarcidano e la Trexenta; infine al sud col Gerrei ed il Sarrabus. Il nome di questa regione deriva molto probabilmente dall'antica denominazione Agugliastra, che si rifà ad una scogliera di mare, nel Tirreno, formata da tante guglie rocciose. «Anticamente — scrive l'ogliastrino integrale Angelino Usai attento e profondo studioso di cose patrie era denominata Agugliastra, Squìllastrum, Oleastra, Ollasta, Olasta, Ullaste, Ullastra, ed anche Trigonia di Barbagia, dal greco «trigonos». Una delle suddette denominazioni — Oleastra — ha fatto ritenere a tanti cultori della toponomastica sarda che il termine derivasse dagli olivastri che allignano in abbondanza in quella regione. L'Usai, citando tutte le denominazioni già assunte di quella «Trigonia », ci offre soltanto un apporto documentario senza volersi pronunciare sull'etimologia di Ogliastra. Per lo Spano la denominazione Ollasta, a cui rimanda Ogliastra, è derivata (nientemeno!) dal fenicio. Infatti così scrive: «Ogliastra, ollastinu, ogliastrinu. Da questa voce hanno preso il nome molti villaggi. Non è dunque dalla quantità degli ulivi selvatici che abbiano preso l'antivoce, ma è da Astaroth, Astarte, la Diana dei fenici, per il culto che gli antichi Sardi prestavano a questa Divinità, di cui un tempio esisteva nel Capo Sant'Elia di Cagliari». E' appena il caso di dire, con tutto il rispetto che abbiamo per l'illustre orientalista, che non sentiamo alcuna venerazione per la dea Astarte e che l'averla, lo Spano, riportata sugli altari della toponomastica sarda non ci commuove affatto. Noi opiniamo per la derivazione di questo toponimo da Agugliastra. *** 76 L'autore di queste note linguistiche non si sente, a cagione delle sue deboli forze, di poter continuare nella ricerca etimologica di toponimi sardi. Si è azzardato a farne in numero così esiguo come invito agli studiosi qualificati della materia di voler continuare l'opera di scavo che ha voluto intraprendere per suo esclusivo diletto. L'imbocco della galleria resta pertanto aperto a tutti i cultori di buona volontà. 77 78 INDICE Presentazione .................................................................................Pag. 3 Abbreviazioni ................................................................................Pag. 5 Enigmi ed aspetti peculiari della lingua sarda .......................Pag. 7 Abba crasta - abbercheddàre. Altri enigmi e peculiari aspetti della lingua sarda ................Pag. 13 Ajubore - alapinna - annujadorzu - assussegare attrasettàre - bòzziga - connou - culvenu - galiu ghiu - giannittàre - grusare - illierare - inzottu isculpìre - ispaju - lìbide - ludrau – minzìdiu Voci ignorate o mal note .............................................................Pag. 23 Abbiscarzare - alapinna - attutinàre - libriscu ludrau – pinnadèllu Ricerche e scoperte linguistiche del Wagner ..........................Pag. 31 Paolo Soro Morittu e le sue lacune nelle integrazioni allo Spano .....................................................................................Pag. 33 Abbalèstra - abbortijàre - ajubore - arijedda - arturiu birzine - bundu - campaniare - corogliare connou - culiu - dellezu - diddia - fittivu - forròttula frobbadu - grina - illoriare - innoriare - inzichi isaliadu - isbentiumene - iscettu- istejare - isuliare Altre lacune del Soro Morittu ....................................................Pag. 41 Iscancu - iscasiddàre - ischijittu - istrazone - lichidu lullù - madrùncula - malugàgnu - mannòsigu - manuda muffache - murimèntu - nàchi - nìbidu - pedrischèddula pudèmia - perdèzzi - rebbegliare - rènzia - semidànu - silva supreva - trasinu – troddulare - zuppeddu 79 Mancate rettifiche del Soro alle integrazioni nello Spano ..Pag. 48 Babbarrottu - bettu - brassanu - caminzòne - ischimare loba - luzana - moristèllu - pìttima - pittiriacca Nuove indagini su voci enigmatiche .........................................Pag.57 Bae - canàpida - igumàrras - iscadancàre – ludrau - tura Ulteriore contributo alla salvezza del patrimonio ..................Pag. 63 linguistico sardo Libide - malevaldìa - sarau - sebeze - trajànu – terpes e urpes Di alcuni toponimi .......................................................................Pag. 69 Bonorva - Elmas - Logudoro - Nurra - Ogliastra 80
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