15.12.2012 - EDIT Edizioni italiane

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15.12.2012 - EDIT Edizioni italiane
CULTURANDO
La stagione
delle fiabe
di Diana Pirjavec Rameša
La maggior parte delle favole sono state raccolte e in parte riscritte nel corso dell’Ottocento da estensori che, come i fratelli
Grimm, ne avevano riconosciuto il valore e il contenuto. Dalle
nostre parti le favole divennero ben presto tesori di famiglia. Per
lo più erano gli anziani cui spettava l’onore e il dovere di raccontarle ai più giovani. Scrive il pedagogo Jacob Streit:” Ogni popolo di antica civiltà aveva le proprie favole e i propri cantori che
le diffondevano. È davvero singolare che presso gli indiani, gli
africani, gli asiatici e gli europei si trovino molte immagini e figure simili”. E come disse lo storico della civiltà Herman Grimm,
figlio di uno dei due fratelli Grimm, nelle favole si può trovare il
contenuto della grande storia universale nei tempi primordiali.
Severi fin quasi alla pedanteria, i narratori che incontrarono i
fratelli Grimm vegliavano come gli ultimi custodi delle fiabe per-
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«Ipotesi» di Alessandro Damiani/ Edit 2012
La verità è oltre l’orizzonte
di Paolo Quazzolo
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na delle funzioni più antiche e più nobili del teatro è senza dubbio quella
di affrontare e porre in discussione i grandi temi della vita umana:
lo scopo è spingere la platea a riflettere su tematiche difficili, ostiche e talora anche spiacevoli, al
fine di un catartico miglioramento
della società.
Se da un lato numerosi autori
hanno preferito rivolgersi al loro
pubblico con testi non impegnativi e votati al puro divertimento,
dall’altro molteplici drammaturghi
hanno preferito proporre, facendo
uso ora del linguaggio tragico ora
di quello comico, argomenti di carattere politico e sociale, volti a
dare una rappresentazione spesso
problematica della realtà quotidiana. Temi quali la guerra, la cupidigia per il potere, la corruzione e
la sopraffazione hanno da sempre
percorso la drammaturgia occidentale, svelando così al pubblico
il volto più inquietante dell’essere umano. È questa la via seguita anche da Alessandro Damiani,
letterato, saggista, poeta e drammaturgo di origini calabresi, ma
da lunghissimo tempo residente
a Fiume, una delle voci più alte e
complete della letteratura istriana
degli ultimi cinquant’anni.
Nato il 26 agosto del 1928 a
Sant’Andrea Apostolo dello Jo-
nio, in Calabria, Damiani inizia
a interessarsi di letteratura e politica nell’immediato dopoguerra. Dopo una breve collaborazione con “Umanità Nova”, l’organo
del movimento anarchico italiano
per il quale scrive articoli su temi
sociali, ma anche di arte e cultura,
si avvicina alle posizioni del PCI,
che ben presto offre al giovane intellettuale la possibilità di entrare
a far parte del Partito.
Damiani, non interessato a
praticare la politica in modo
professionale, rifiuta l’offerta,
preferendo piuttosto spendersi
nell’ambito politico-rivoluzionario. Con un gruppo di giovani
esce clandestinamente dall’Italia per entrare in Jugoslavia ove
vengono arruolate e addestrate
le brigate internazionali per af-
frontare la lotta armata all’interno della causa rivoluzionaria in
Grecia. L’autore per un certo periodo è in Macedonia, quindi si
reca a Lubiana e infine raggiunge
Fiume, città caratterizzata da una
forte presenza italiana.
È proprio l’arrivo a Fiume,
importante centro culturale del
Quarnero, che consente a Damiani di avvicinarsi a quello che diverrà uno dei suoi maggiori interessi: il teatro. Dopo un’audizione, entra a far parte della Compagnia del Dramma Italiano del
Teatro “Ivan Zajc” ove ha occasione di imparare il mestiere
dell’attore ma, soprattutto, di scoprire e mettere a fuoco la sua vocazione di drammaturgo.
Segue alle pagine 2-3
cultura
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69 • Sabato, 15 dicem
ché i testi fossero riprodotti invariati e fedeli alla lettera. Erano
convinti che attraverso di loro fosse conservato e amministrato
un bene spirituale che non doveva andar perduto per l’umanità. Interpretazione e profondità di contenuto. Ci sono bambini
più sensibili e altri più robusti. Attraverso il racconto delle fiabe
i troppo sensibili possono venir fortificati e i più robusti affinati
e addolciti interiormente. La stessa favola può essere esposta in
modo diverso per bambini diversi. Una maestra racconterà a una
classe prevalentemente femminile usando un altro tono rispetto a
una classe piena di maschi esuberanti. Una madre avrà un tono
differente con un tenero bambino malinconico o con un collerico
ribelle. Il bambino in età prescolare è ancora del tutto dipendente
dalle fiabe narrate.
Se gli vengono trasmesse in modo giusto, più tardi le saprà
anche leggere in modo adeguato, partendo cioè da un giusto atteggiamento di meraviglia. Bambini che sanno ancora stupirsi,
meravigliarsi, si collegheranno molto più intimamente con ciò
che dovranno apprendere negli anni a venire e non rischieranno
di inaridirsi troppo con una conoscenza solo intellettuale. Ascoltare fiabe dai dischi nasce da una mentalità “del cibo in pillola”. Manca l’autentico lato umano, il dialogo tra chi racconta e
il bambino, che è sempre un ricco scambio fra anime. Un tipico
quadretto del nostro tempo: la mamma in poltrona legge un giornale illustrato e i bambini nella stanza accanto ascoltano un disco di fiabe.
In alcune città europee i bambini possono ascoltare una favola anche facendo un numero di telefono: pietre invece di pane.
Genitori non lasciatevi portar via la cosa più bella nella vita dei
bambini: raccontate ai vostri figli fiabe e novelle! Fra i ricordi caldi e forti dei bambini divenuti adulti ci sarà anche questo:
i miei genitori mi hanno sempre raccontato delle fiabe. Si formeranno legami d’amore molto più saldi di quanto avvenga accontentando i bambini nei capricci e nelle richieste che oggi si
ritiene doveroso soddisfare. E allora. giacché siamo sotto Natale, molti magari in vacanza... dedichiamoci alle fiabe, per accontentare i nostri piccoli e magari ritrovare quel bambino nascosto
che c’è in noi...
2 cultura
Dalla prima pagina
Al Dramma Italiano, tra l’altro,
conosce l’attrice Olga Stancich,
con la quale, nel 1950, si sposa.
Gli anni Cinquanta sono, per
l’autore calabrese, ricchi di attività: recita con la compagnia del
Dramma Italiano, prende parte alla lavorazione di alcuni film,
collabora a Radio Fiume e inizia
a scrivere per numerosi periodici in qualità di critico teatrale e
letterario. Contemporaneamente frequenta la facoltà di Filosofia dell’Università di Lubiana ove
gli viene permesso di sostenere gli
esami in lingua italiana. Gli anni
Cinquanta sono anche il periodo in
cui Damiani dà alla luce le prime
opere drammatiche: tra il 1952 e
il 1956 scrive la prima parte della
trilogia “Ipotesi”, il dramma “Dal
tramonto all’alba” e la commedia
“Caro vecchio Sud”. Mentre le
prime due opere saranno pubblicate negli anni Settanta, l’ultima è
tuttora inedita.
Nel 1957, deluso dall’esperienza socialista jugoslava, l’autore fa ritorno in Italia, stabilendosi
a Roma. Sono anni molto prolifici
non solo sul piano letterario (collabora a varie testate occupandosi
sia di teatro e cinema, sia di temi
sociali che di politica internazionale), ma soprattutto per i proficui
incontri con alcune delle personalità più alte del panorama artistico
italiano di allora: Mario Soldati,
Alessandro Blasetti, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Damiano Damiani, Franco Rosi, Ermanno Olmi, solo per fare alcuni
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anni Novanta, in momenti diversi, ricopre il ruolo di redattore culturale per il quotidiano “La voce
del Popolo” (EDIT, Fiume) e per il
quindicinale “Panorama” (EDIT,
Fiume).
Contemporaneamente,
Damiani insegna Giornalismo sia
presso la Scuola Media Italiana di
Fiume, sia presso la Facoltà di Italianistica a Pola.
Dal rientro a Fiume, l’autore si
dedica con continuità alla scrittura nelle sue varie forme: narrativa,
poesia, saggistica e, naturalmente,
teatro. Le sue opere vengono via
via pubblicate nelle antologie del
Concorso d’arte e cultura “Istria
Nobilissima” e da case editrici di
Trieste, Udine, Firenze, Zagabria
e Fiume. Nel 1987 esce il romanzo “Ed ebbero la luna”, scritto tra
il 1978 e il 1979, e da poco riedito
da EDIT. Particolarmente preziose
le sue opere nell’ambito della saggistica, con cui contribuisce alla
rivalutazione e promozione della
realtà storico-culturale della Comunità nazionale italiana in Istria
e alla valorizzazione di alcune tra
le personalità letterarie di maggior
spicco, quale Osvaldo Ramous.
Dalla metà degli anni Ottanta le
sue opere – teatrali e non – iniziano a essere tradotte anche in lingua croata: la stessa trilogia drammatica Ipotesi è pubblicata a cura
dell’Associazione degli Scrittori
della Croazia, destando l’interesse
della Maggioranza.
In tempi recenti, a cura dell’Edit
di Fiume, si è intrapresa la pubblicazione – o ri-pubblicazione – di
numerose opere di Damiani, con
l’obiettivo di realizzare, in tempi
brevi, l’opera omnia.
Le tre parti di “Ipotesi” si collocano in
tre momenti storici che l’autore, nelle
didascalie, preferisce non definire con
precisione: appare tuttavia evidente che
la prima fa riferimento a un passato
lontano, la seconda guarda alla nostra
contemporaneità, mentre la terza,
quella dal carattere più enigmatico,
porta sulla scena un mondo futuro nel
quale, tuttavia, la storia sembra ancora
una volta ripetersi immutata
nomi. E sono gli anni in cui ha occasione di confrontarsi con personalità di valore internazionale, una
per tutte il filosofo e drammaturgo
Jean-Paul Sartre.
Nei primi anni Sessanta Damiani decide di rientrare in Jugoslavia,
facendo ritorno a Fiume. Riprende
la collaborazione con il Dramma
Italiano, soprattutto in qualità di
ufficio stampa, intessendo importanti relazioni e avviando preziose
iniziative culturali. Saltuariamente
fa anche l’attore: in tale veste partecipa alla messinscena di uno degli spettacoli più importanti nella
storia del Dramma Italiano, “Cantata del fantoccio lusitano” di Peter Weiss, messo in scena nel 1969
dal regista Francesco Macedonio.
Dal 1970 e sino alla metà degli
Una pur sommaria biografia rivela che l’arte teatrale, per Alessandro Damiani, ha costituito e
costituisce uno dei grandi leitmotiv dell’attività artistica, attraverso le sfaccettature più diverse: la
frequentazione del teatro in qualità di critico e saggista, l’esperienza attorale e, infine, quella di
drammaturgo. Proprio quest’ultima, forse tra tutte le attività quella prediletta, ha condotto l’autore
a cimentarsi – attraverso il complesso linguaggio scenico – con
tematiche spesso difficili eppure
in linea con un impegno culturale,
sociale e politico perseguito lungo
tutta la vita. Non è quindi un caso
che la trilogia drammatica “Ipotesi” rappresenti un momento fondamentale della produzione tea-
Alessandro Damiani
trale (e non) di Damiani, essendo
da un lato un lavoro la cui composizione ha occupato un arco temporale lungo quasi trent’anni, e
dall’altro dimostrando la volontà
di confrontarsi (e far confrontare
il pubblico) con una tematica certamente non semplice e ammantata di risvolti inquietanti: ossia la
possibilità di un conflitto combattuto con armi devastanti e, soprattutto, il fatto che la scienza possa
mettersi, in modo più o meno cosciente, al servizio del potere per
creare armi mostruose capaci non
tanto – come ricorda l’autore – di
distruggere la specie, ma soprattutto di annientare l’intera civiltà. E ciò rappresenta l’aspetto più
drammatico e inquietante di tutta
la vicenda.
La stesura della prima parte di
“Ipotesi” ha luogo agli inizi degli
anni Cinquanta. Dieci anni più tardi l’autore pone mano alla seconda
parte, mentre la terza vedrà la luce
appena attorno alla prima metà degli anni Ottanta. Un lavoro complesso che viene dunque a maturarsi in corrispondenza del succedersi
degli eventi storici e delle trasformazioni dei rapporti tra le potenze
occidentali e quelle dell’est. E che,
contemporaneamente, percorre il
maturarsi del pensiero dell’autore. Le singole parti da cui è composta Ipotesi conoscono una prima pubblicazione, in forma separata, tra gli anni Settanta e Ottanta. In seguito vengono pubblicate
assieme in una versione in lingua
croata, con traduzione di Margherita Gilić, ad opera dell’Associazione degli Scrittori della Croazia.
Ora, per la prima volta, la trilogia
drammatica “Ipotesi” compare riunita in un unico volume, in lingua italiana.
“Ipotesi su cosa?” si interroga l’autore nella nota introduttiva a questo volume. Potremmo rispondere “Ipotesi sull’incerto destino dell’uomo” all’indomani dei
disastri nucleari che posero fine
alla seconda guerra mondiale. Ed
effettivamente la creazione di un
ordigno spaventoso, le cui conseguenze si stanno pagando ancora
oggi, a oltre cinquant’anni dal termine del conflitto, spinsero gli intellettuali, gli uomini di potere e
soprattutto gli scienziati a riconsiderare profondamente, nel clima
incerto dell’immediato dopoguerra, il ruolo della scienza all’interno della nostra società. Una scienza le cui scoperte avrebbero potuto
servire (e la storia lo aveva appena dimostrato) non più ad aiutare
l’uomo a migliorare la propria esistenza, ma viceversa, a distruggerla, determinandone così un destino terrificante. Ed è proprio la riflessione sul destino dell’uomo e
sul fatto che l’essere umano possa autodeterminarlo, che costituisce il nucleo centrale di questa trilogia drammatica. Cui si affianca,
inevitabilmente, la considerazione
circa l’inquietante tentativo attuato dal potere nel piegare la scienza
ai propri fini, e la sempre latente
possibilità di una disastrosa connivenza tra i due termini. Ma, lungo il corso della storia, il rapporto
tra potere e scienza sembra essersi
del tutto capovolto: se un tempo le
scoperte scientifiche inquietavano
la classe dirigente e quella religiosa a tal punto da cercare soluzioni
estreme (è il caso tristemente celebre di Galileo Galilei), il Novecento ha viceversa insegnato all’uomo
che la scienza può essere messa al
servizio dei governanti per renderli invincibili e per poter consentire
loro una politica di sopraffazione
nei confronti dei popoli vicini.
La storia narrata da Damiani in
“Ipotesi” vede scontrarsi, in vari
momenti della storia umana, forze
politiche opposte, che rappresentano l’eterno conflitto tra le potenze dell’occidente e quelle dell’est,
tra progressisti e conservatori, tra
dittatura e democrazia, tra presunti “buoni” e presunti “cattivi”, laddove appare pressoché impossibile decidere in via definitiva chi sia
il buono e chi il cattivo. In mezzo
a tutto ciò domina la figura dello
Scienziato il quale, conteso dalle
parti opposte e ormai pienamente
conscio del nuovo ruolo da lui ricoperto nella società, cade in una
profonda crisi esistenziale, volta non solo alla ricerca di se stesso, ma soprattutto delle impossibili giustificazioni che potrebbero
spiegare un atto di autodistruzione
della specie: solo l’idiozia collettiva – chiarisce l’autore – può essere il mezzo per spiegare perché
l’umanità sia giunta a perdere se
stessa. E, in un mondo in cui prevale la corsa agli armamenti e la
cieca ambizione a dominare gli altri, lo Scienziato è l’unico che sappia guardare in faccia la realtà. In
altre parole, in un mondo divenuto
ormai insensibile a ogni sollecitazione, egli è il solo a possedere la
conoscenza, la capacità di analisi
e di interpretazione dei fatti che lo
circondano.
Le tre parti di “Ipotesi” si collocano in tre momenti storici che
l’autore, nelle didascalie, preferisce non definire con precisione:
appare tuttavia evidente che la prima fa riferimento a un passato lontano, la seconda guarda alla nostra
contemporaneità, mentre la terza,
quella dal carattere più enigmatico, porta sulla scena un mondo futuro nel quale, tuttavia, la storia
sembra ancora una volta ripetersi
immutata. La struttura poggia su
una serie di simmetrie che vedono
riproporre, seppure in contesti storici diversi, personaggi equivalenti
e posti tra di loro in relazioni simili. Si tratta di una serie di funzioni
drammaturgiche che hanno lo scopo di sottolineare l’immutabilità
dell’essere umano e il ripresentarsi, in epoche diverse, di medesime
situazioni capaci di ripetersi ciclicamente. E così lo Scienziato nella prima parte ci compare sotto le
sembianze del Simulacro, nella seconda come Scienziato e nella terza come Troglodita. Similmente il
ruolo della donna vicina al potere è ricoperto ora da Eletta, ora da
Sexy, ora da Idea; il potere è rappresentato dal Re nella prima parte, dal Presidente e dal Dittatore
nella seconda e da Omicron nella terza; il Saggio, l’Intellettuale
e Iota sono delle sorte di alter-ego
dello Scienziato, coloro con cui il
protagonista intesse un dialogo su
argomenti filosofici; il Ministro (I
e II parte) e Ics, rappresentano infine la funzione più impenetrabile
e inquietante, coloro che sembrano
conoscere verità nascoste, ma che
cultura 3
Sabato, 15 dicembre 2012
˝Da sinistra il direttore dell’Edit, Silvio Forza, Alessandro Damiani, Paolo Quazzolo e Sandro Damiani
sono anche i portatori del male più
oscuro. La prima parte, dunque, ci
porta in un’epoca antica e le forme stesse della pièce riecheggiano quelle della tragedia classica: il
prologo, un coro di ancelle, la presenza del Corifeo e del Messaggero, così come il numero contenuto
di personaggi e la struttura lineare sono un voluto richiamo alle più
antiche forme drammaturgiche. Il
Prologo, sostenuto dallo Scienziato, ci pone di fronte alla minaccia
di una nuova guerra mossa e giustificata dalle eterne motivazioni
legate «alla libertà, alla giustizia
e al prestigio». Lo Scienziato e le
sue conoscenze, per la prima volta
nella storia umana, vengono chiamati in causa per risolvere il conflitto: il protagonista, è costretto a
ragionare sulle proprie responsabilità e a cercare risposte, ma ormai
«la scienza, la storia e la morale»
sono divenuti «specchi opachi, tutti deformati dal dubbio». E il dubbio è «l’unico nostro possesso». Si
apre dunque un lungo viaggio nel
tempo che vede lo Scienziato passare da una fase storica all’altra,
assumendo di volta in volta sembianze differenti. In questa prima
parte assistiamo allo scontro di un
Re con il suo popolo: da un lato
il bisogno di preservare il potere, dall’altro l’anelito alla libertà;
da una parte la tirannide, dall’altra l’aspirazione a un governo democratico. In mezzo allo scontro
si pone Eletta, la sacerdotessa che
parla con il Simulacro del Dio e
che rappresenta l’eterna contrapposizione tra potere religioso e
potere politico. Il Simulacro è in
questa prima parte della trilogia lo
Scienziato: incarnatosi nella statua
del Dio, il protagonista viene interrogato dalla sacerdotessa che a
lui chiede di intervenire per porre
fine al conflitto. Ma lo scienziato
deve confrontarsi anche con il Mi-
loquio con il Saggio è a tal fine illuminante: «Un giorno – confessa
metaforicamente il sapiente – ho
fissato la luce, e da quel momento non distinguo più nulla». La vicenda volge al termine, il popolo
chiede al Simulacro una soluzione
ed Eletta lo implora di intervenire.
Ma le possibili azioni dello Scienziato porterebbero solo violenza e
ridurrebbero tutto in polvere: meglio quindi che gli uomini cerchino da soli una nuova via.
La seconda parte di “Ipotesi” ci
porta all’epoca attuale. Qui entrano in gioco, da un lato un Segretario di partito con un’affascinante
quanto scaltra moglie e un Presidente, e dall’altra un ambiguo Ministro e un Dittatore, tutti coinvolti
nell’eterno scontro tra est ed ovest,
tra democrazia e dittatura, tra libertà e schiavitù. In questo caso
lo Scienziato, l’unico ad avere coscienza del mondo in cui vive, è
conteso tra le due potenze, le quali
altro scopo non hanno che prevalere l’una sull’altra. Sullo sfondo
di segretissimi esperimenti nucleari, varie manovre vengono poste
in atto per assicurarsi la collabo-
Nel proporre “Ipotesi”, Damiani
dimostra di saper conferire al teatro,
ancora una volta, la sua antica e alta
funzione sociale, ossia quella di divenire
una sorta di grande specchio dentro il
quale il pubblico vede riflessa la propria
immagine e le parti peggiori di se stesso:
i difetti, gli errori, talora le mostruosità
che da sempre accompagnano l’esistenza
umana e che, necessariamente, il teatro,
per suo alto compito, deve correggere
nistro, metafora della tentazione e
del male, che propone all’uomo di
scienza di utilizzare le sue capacità
per attuare una “soluzione definitiva”: «troncare questa storia assurda, non concedere neanche un attimo di più ai secoli di affanni inutili che altrimenti si prospetterebbero davanti a noi. E, occasione
unica, tu puoi farlo per tutti». Ma
la conoscenza sembra aver portato
all’uomo più male che bene: il col-
razione dell’uomo di scienza. Nel
gioco entra anche Sexy, la moglie
del Segretario, donna affascinante e astuta, capace di manovrare i
propri simili, spesso sostituendosi
al marito nella gestione degli affari politici. Ma a lei si contrappone il Ministro – ancora una volta
espressione delle oscurità del male
– che in un dialogo ove entrano
in ballo potere e sesso, si gioca la
partita per ottenere la collabora-
zione dello Scienziato. Quest’ultimo, ora sotto le spoglie di un
professore, si è ritirato a vivere
in una baita di montagna lontano
dalla civiltà. Qui viene raggiunto
dall’astuta Sexy che riesce a convincerlo a far visita al Presidente.
All’uomo di potere lo Scienziato
tuttavia confessa che “l’arma totale”, quella che dovrebbe assicurare l’invincibilità alla nazione che
la possiede, non può essere realizzata. «Se fosse stata realizzabile –
chiede il protagonista al Presidente – si sarebbe assunto la responsabilità di farla costruire?». «No,
io no – risponde l’uomo di potere
-. Ho ancora il senso della responsabilità davanti alla mia coscienza,
per lasciarmi coinvolgere dall’insania collettiva. Però – ammonisce ancora – non si faccia illusioni,
professore. Il meccanismo è tale,
che nella dannata ipotesi espugnerebbe un marchingegno per l’approvazione di quell’atto». Il male
è dunque inevitabile. Così come
lo è presso l’altra potenza: posto
di fronte il medesimo problema, il
Dittatore risponde «Io sono un’entità impersonale. Da me si richiede
attitudine, non partecipazione. A
trattenermi dal firmare quelle cartacce non è un’esitazione emotiva,
ma l’analisi accurata delle utilità.
Superato questo esame io firmerò,
o non firmerò, tranquillamente». A
questi due uomini di potere, diversi nel credo politico ma simili nella corsa alla supremazia, lo Scienziato può solo rispondere che sulla
terra «Tutto – nomi, fatti, uomini
– procede come se avvenisse per
la prima volta; e invece si tratta di
circostanze già accadute, di esperienze già consumate prima della
notte dei tempi, in un’altra giornata storica. Non è un ricorso… sono
le ansie, sempre le stesse, di una
povera umanità, destinata a frangersi sulla riva dell’esistenza».
La corsa alla supremazia è quindi
una storia già nota: i suoi esiti disastrosi non hanno insegnato nulla all’uomo, che periodicamente
torna a compiere i medesimi errori. La scena finale di questa seconda parte ci propone l’immagine di
un “sit-in” di giovani che protestano contro gli esperimenti nucleari: a nulla varrà il loro gesto eroico contro i militari. Così come al
termine della prima parte, anche
questa seconda sezione della Tri-
logia descrive l’impossibilità per
lo Scienziato di intervenire sulle
sorti dell’umanità: gli esperimenti
nucleari continueranno e con essi
la corsa verso l’autodistruzione.
L’ultima parte di “Ipotesi” ci
proietta in un mondo del futuro
che, seppur dominato dai computer, è pur sempre assillato dal bisogno di sottomettere le potenze nemiche. I personaggi – i cui nomi
sono ormai ridotti a semplici sigle
– devono confrontarsi con il Tro-
vela alfine la sua vera identità: un
“mostriciattolo con gli zoccoli e il
muso caprino”, ossia il demonio.
Ma, curiosamente, egli è l’unico
personaggio che, come il Troglodita, avendo viaggiato nel tempo,
possiede la memoria storica, ed è
quindi l’unico con il quale il protagonista può avere un vero dialogo. Sembra così che la storia, ancora una volta, stia per ripetersi.
Ma qualcosa accade: l’incontro
tra Idea e il Troglodita ha effetti imprevedibili, e la scoperta per
la donna del sentimento d’amore
sconvolge ogni cosa: «È un turbamento – esclama Idea – che mette in forse tutto il sistema di valori, una minaccia alla struttura del
mondo». Ed effettivamente, nel
monologo finale, il Troglodita afferma: «Senza l’amore come potete avere la cognizione della bellezza, principio di ogni attrazione che crea armonie? L’esistenza,
priva di questa scintilla, ha significato? […] A voi manca il vincolo
più dolce e saldo che tutto unisce
e assolve: la pietà. […] Scoprire
la propria ragion d’essere. In questa contraddizione si consuma il
dramma della vicenda umana. Rimane una sola certezza: la Verità è
oltre l’orizzonte».
Lavoro complesso, dal linguaggio talora ermetico, “Ipotesi”
rappresenta una importante riflessione sull’uomo dei nostri tempi.
Il pessimismo che percorre la Trilogia proviene dalla constatazione che l’essere umano non impara
nulla dalla storia e dai propri errori: le sue ambizioni lo conducono a perdere la memoria del passato e a ripercorrere le stesse strade
pericolose. Ma il finale dell’opera
sembra aprire un varco alla speranza: solo la forza dell’amore e
la consapevolezza dei propri limiti potranno salvare la civiltà. Il
testo dell’autore calabrese è ricco
di metafore e di riferimenti, tuttavia non importa quali figure si vo-
La storia narrata da Damiani (...) vede
scontrarsi, in vari momenti della storia
umana, forze politiche opposte, che
rappresentano l’eterno conflitto tra le
potenze dell’occidente e quelle dell’est,
tra progressisti e conservatori, tra dittatura
e democrazia, tra presunti “buoni”
e presunti “cattivi”, laddove appare
pressoché impossibile decidere in via
definitiva chi sia il buono e chi il cattivo
glodita, sorta di reperto storico ritrovato casualmente, che porta con
sé la testimonianza di un mondo
passato. Ancora una volta si tratta
dello Scienziato il quale, precipitato in un mondo dominato da intelligenze artificiali, risulta essere
l’unico a poter ricordare e, soprattutto, a poter provare sentimenti.
Omicron e Idea sono, ancora una
volta, i portatori di due modi diversi di governare e, di nuovo, gareggiano tra loro per assicurarsi
l’ordigno più potente. Il confronto con Iota, sorta di alter ego dello Scienziato, conduce il protagonista a interrogarsi sul suo ruolo e
ad ammettere che la ricerca della
verità non è mai approdata a nulla: «Conoscere fu per noi un’istanza sempre viva e mai soddisfatta,
una voglia che si nutriva delle proprie brame, alla ricerca del chiarimento definitivo. Ma la verità si rivelava come orizzonte, non come
meta». Il confronto tra il Troglodita e Ics ci pone ancora una volta dinnanzi allo scontro tra il bene
e il male laddove Ics – personaggio già incontrato dallo Scienziato, sotto altre sembianze, nelle
precedenti parti della Trilogia – ri-
gliano scorgere dietro i personaggi
che si muovono nel dramma: ciascuno potrà riconoscere statisti di
ieri e di oggi, intravvedere potenze di opposto orientamento politico, regimi totalitari e governi democratici non più esistenti oppure ancora in vita. O, forse, nulla di
tutto questo. Ciò che emerge è il
tema, antico eppure mai superato, dei rapporti tra l’uomo e la conoscenza, nell’eterno assillo che
questa possa costituire un progresso per l’umanità o una minaccia per la civiltà. È la storia sempre attuale di Edipo che, cercando
di scoprire la verità, finisce per far
emergere gli aspetti più inquietanti dell’esistenza umana. E nel proporre “Ipotesi”, Damiani dimostra
di saper conferire al teatro, ancora
una volta, la sua antica e alta funzione sociale, ossia quella di divenire una sorta di grande specchio
dentro il quale il pubblico vede riflessa la propria immagine e le parti peggiori di se stesso: i difetti, gli
errori, talora le mostruosità che da
sempre accompagnano l’esistenza
umana e che, necessariamente, il
teatro, per suo alto compito, deve
correggere.
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cult
Sabato, 15 dicembre 2012
ARTE Non sono solo dei gadget, sono delle vere e proprie opere d’arte. Accessibili a t
L’ombrello che ti fa sorridere? U
di Patrizia Lalić
O
ggi li chiamano gadget, ma
è la dolcezza e la sonorità
del termine souvenir, un po’
in disuso, a rendere meglio il concetto e la funzione di questi oggetti capaci di incarnare, più che un
luogo visitato, un’esperienza. Non
solo permettono di ricordare, ma
persino di rivivere attraverso un
frammento, le emozioni di un momento. E poi? Col passare del tempo vengono dimenticati e accantonati pieni di polvere in qualche angolo della nostra casa.
Una vera e propria rivoluzione
del concetto di souvenir, nel capoluogo del Quarnero, è stata fatta per
puro caso ed è nata dalla creatività e, soprattutto, dalla necessità di
Vujka Meić di trovare quanto prima un lavoro.
“Anche se iscritta all’Ufficio
di collocamento, nessuno mi chiamava per un impiego – esordisce
‘Mića mala’, ossia ‘Bambina piccola’, che oltre ad essere la denominazione ufficiale della ditta che
realizza i gadget è diventato pure
il simpatico soprannome della proprietaria nonché nostra interlocutrice –. “Dovevo assolutamente inventarmi qualcosa. Parlando con
diverse persone, sono giunta alla
conclusione che Fiume aveva bisogno di un souvenir diverso, che rispecchiasse l’anima della città. Doveva essere qualcosa di non troppo costoso, utile, qualcosa che non
avrebbe creato ingombro in casa,
ma sarebbe stato un artefatto ad
uso quotidiano. E così ho pensato
a dei gadget firmati. Fiume per me
è una città che emana vibrazioni
positive e chi meglio di Vjekoslav
Vojo Radoičić poteva catturarle e
trasformarle in oggetti che ti mettono allegria appena li vedi? Si è trattato di un ottimo esempio di utilizzo e promozione dell’arte nella vita
quotidiana“.
L’illustre artista fiumano ha accettato volentieri la proposta di Vujka Meić e ben presto Radoičić ha
disegnato il primo ombrello, seguito subito dopo da sottobicchieri, grembiuli da cucina, magliette,
borse in stoffa per la spesa..., oggetti recanti tutti il marchio “Izvorno riječko” (prodotto originale fiumano) e “Osobita kvaliteta” (di
qualità particolare). La particolarità degli ombrelli, che portano gli
inconfondibili e simpatici messaggi dell’autore, come del resto di tutti gli altri elementi della collezione,
è appunto la sinergia tra la loro utilizzabilità e l’arte, cosa che in poco
tempo ha fatto diventare questi comuni oggetti dei veri e propri dettagli di moda, un ‘must’. Vengono realizzati da un’impresa di Varaždin
e il processo produttivo è tutt’altro
che semplice ed è costoso.
”Per riuscire a trasferire l’opera
su tutta la tela dell’ombrello – spiega Vujka Meić –, bisogna dapprima fotografarla ed eleborarla graficamente al computer, nei minimi
dettagli, in modo da non perdere la
continuità dell’immagine sui raggi dell’ombrello. Poi ogni sezione
viene stampata su particolari rotoli di carta, che vengono appoggiati
sulla tela impregnata e posti sotto
ad una grande pressa a temperature
elevate. Quindi, viene tagliata, cucita e si procede con l’assemblaggio. Io l’ho detto sin dal primo momento: quando apriamo l’ombrello
sopra la nostra testa c’è... una grafica d’artista”.
Dopo il felice connubio artistico
con Vojo Radoičić la Meić ha deciso di ampliare l’offerta. Il progetto ‘glagolitico’ di Bruno Paladin in
tal senso si integrava perfettamente
con le sue scelte. “Si tratta di una
scrittura che è stata usata nella
storia anche in altre parti del Paese, non solo lungo il nostro litorale
– ha precisato Vujka Meić –. Bruno
ha sfruttato al massimo il suo genio artistico: giocando con i colori
e con i possenti caratteri glagolitici
ha creato dei prodotti allegri e allo
stesso tempo eleganti. Sino ad ora
sono stati realizzati sottobicchieri
in diverse tonalità e un ombrello da
donna, mentre quello da uomo, caratterizzato da colori più sobri sarà
disponibile a breve”.
“Si è trattato di una grande sfida – ha puntualizzato l’eclettico artista connazionale Bruno Paladin –,
anche perché la fiducia che mi viene data dai collaboratori, amici o
galleristi, per me è sempre fonte di
grande ispirazione. Conosco Vujka
ormai da tanti anni e, parlando di
arte e nuove idee abbiamo pensato di dar vita un prodotto legato al
territorio e alla città. Non dobbiamo dimenticare che a Fiume in un
lontano passato c’erano anche tipografie che stampavano in glagolitico. Mi tengo alla larga dal kitsch e
proprio per questo motivo ho deci-
Bruno Paladin e Vujka Meić
Ombrelli firmati Paladin
Ombrelli firma
tura
Sabato, 15 dicembre 2012
5
tutti. Una brillante idea per un regalo di Natale o qualche anniversario
Uno dei tanti progetti d’autore...
so di collaborare alla realizzazione
dei souvenir autentici, che non sono
dedicati esclusivamente ai turisti,
ma che possono catturare l’attenzione anche di chi vive qui.
Ora siamo giunti al momento in cui la produzione non riesce
a far fronte alle richieste del mercato. Non solo i fiumani amano gli
ombrelli, ma sono molto richiesti a
Spalato, sulle isole quarnerine e in
particolar modo in Istria”.- riferisce
l’artista connazionale.
Bruno Paladin si è trovato molto
bene con il motivo scelto, visto che
le lettere fanno parte di una ricerca
che porta avanti da diversi anni, un
tema che praticamente lo perseguita e che ha perfezionato nell’ambito
del suo grande ciclo artistico ‘Nuova Babilonia’. Prendendo come leit
motive, appunto, il simbolo della
lettera proveniente da vari alfabeti:
greco, cirillico, latino e anche arabo – dà vita ad un caos di informazioni che testimoniano la situazione
politica e gli eventi che circondano
l’autore stesso. Un gioco di parole
da cui nascono dei nuovi segni grafici, che diventano poi pittura.
ati Vojo Radoičić
“Adopero questa tecnica espressiva per puntare il dito contro il caos
che stiamo vivendo – spiega Paladin
–. Inizialmente realizzato con il disegno, questo tema si è sviluppato in
un intero ciclo ‘babilonico’, funzionando come realta a sé stante, come
associazione di idee e soprattutto
come moderna interpretazione pittorica. Nei decenni scorsi usavo scomporre il quadro in più parti, invertendo le sequenze, le quali davano poi
vita ad una composizione nuova e
astratta. Le opere riflettevano il senso diffuso di incertezza, di precarietà e il livello psicologico della gente, messo a dura prova dagli avvenimenti politici e bellici degli anni
Novanta. La situazione, per fortuna,
è cambiata, ma nonostante ciò sono
rimaste presenti le assurdità, le incomprensioni e l’impossibilità di comunicare. Oggi i miei lavori rappresentano un collage di titoli di giornali che riportano frasi pronunciate dai
politici, informazioni che leggo quotidianamente e trasmetto nei miei lavori. Una vera performance. Delle
volte so molto bene ciò che scrivo,
altre invece, nello scegliere le lettere guardo soltanto la loro forma grafica. Il cosiddetto messaggio nascosto è un gioco mio, personale ed intimo, e non ho la pretesa che uno vada
a decifrarlo, anche se gli esperti che
conoscono bene gli alfabeti forse sarebbero in grado di farlo”.
Paladin è anche sinonimo di una
straordinaria energia creativa e di
un inesauribile vitalismo. Costantemente impegnato in nuove iniziative, egli crea e sperimenta usando
tecniche e materiali sempre nuovi
con cui da vita a forme scultoree,
rilievi, ceramiche o grafiche originali, irripetibili, delle piccole opere d’arte. A differenza di altri artisti
che si chiudono nei propri atelier,
egli contrasta l’attuale momento di
crisi socio-economico prendendo
parte a progetti internazionali, colonie artistiche e simposi, perché li
considera un’occasione per imparare cose nuove e proporre il proprio lavoro all’estero.
Un progetto a cui si è dedicato
di recente sono le bottiglie in argilla realizzate per le più grandi cantine vinicole del Collio sloveno
(Goriška brda). “ Il simposio è stato
organizzato dal Consolato generale
polacco in Slovenia in collaborazione con i massimi produttori di vino
del luogo, quali Kristančić, Simčić,
Movia e altri ancora. Un incontro,
dove ogni artista ha dato il suo contributo dipingendo il biscotto ceramico con smalti engobbi, mentre le
bottiglie venivano riempite con vini
pregiatissimi. Il prodotto così confezionato verrà acquistato da consolati e ambasciate quale regalo di
rappresentanza. Con tutti gli artisti che annualmente raggiungono il
Collio sloveno, provenienti addirittura da New York e dall’Inghilterra, i produttori di vino locali sono
diventati anche promotori dell’arte
e collezionisti. Personalmente partecipo ogni anno a questi eventi e
sono fiero di dire che molte iniziative sono partite proprio dal sottoscritto”.
Ma Bruno Paladin non si ferma
qua. Il prossimo marzo, infatti, assieme a Igor Zlatkov, intraprendente produttore di grappe e olio d’oliva di Filozići, sull’isola di Cherso,
darà il via al primo simposio internazionale sul modello di quello sloveno, intitolato “LAG Filozići OPG
Margar F”.
“Io non salto da stile a stile, ma
da materiale a materiale. Adesso
sono tutto preso dalla ceramica. Assieme a Igor abbiamo realizzato tanti campioni e ora bisogna decidere
esattamente che forma dare alle bottiglie, anche perché il procedimento
non è affatto semplice.
I miei contenitori dovranno venir riempiti con grappe, che sono
un liquido acido e la ceramica non
è adatta a contenere i liquidi quanto lo è la porcellana. Si tratta di un
materiale molto poroso e, seppur
ricoprendo l’interno con delle cristalline particolari e adatte all’uso
alimentare, nel corso della cottura possono sempre succedere delle
piccole e microscopiche crepe che
potrebbero causare la fuoriuscita
del liquido.
Io non sono esclusivamente un
ceramista, ma quando decido di
fare una cosa guardo di farla nei migliori dei modi e, appunto, per apprendere e studiare quale sia il migliore metodo di lavorazione delle
bottiglie, qualche giorno fa ho fatto
visita ai più grandi maestri ceramisti di Faenza, Deruta e Nove, alcuni dei più grandi centri italiani del
settore”.
6 cultura
Sabato, 15 dicembre 2012
CINEMA Era il 6 dicembre del 1994, quando un infarto uccise Gian Maria Volonté.
Mille voci dentro. Gran bella fac
di Sandro Damiani
E
ra il 6 dicembre del 1994,
quando un infarto uccide Gian Maria Volonté.
Aveva 61 anni. Stava girando un
film, in Grecia: “Lo sguardo di
Ulisse” di Theo Angelopoulos.
Verrà rimpiazzato da Erland
Josephson. Non che Volonté fosse un attore “bergmaniano”. Lo
era, anche. Come lo dimostrano
molti suoi film: recitazione interiore, sommessa, quasi sussurrata, pause, silenzi lunghi, dialoghi
spezzati... ma era anche attore
dalla recitazione sopra le righe,
grottesca, sorniona, ironica; suadente, aggressiva, violenta. E naturalistica e veristica e... Era un
fenomeno. Il teatrologo Ferruccio Marotti lo defini’ “L’unico
attore di spettacolo italiano”.
Dirà il regista Theo Angelopulos: “Il personaggio del direttore della cineteca di Sarajevo
era stato scritto pensando a Gian
Maria. Lui era romantico come
una figura di Stendhal, non aveva bisogno di recitare, portava
tutto dentro di sé ”.
Volonté ha rivestito i panni di
personaggi con tanto di nome e
cognome ovvero storicamente
esistiti, e personaggi fittizi, ma
riconoscibilissimi.
Alla prima categoria appartengono Giordano Bruno e Bartolomeo Vanzetti (con Giuliano
Montaldo), Lucky Luciano ed
Enrico Mattei (con Francesco
Rosi), Aldo Moro (una prima
volta con Elio Petri, quindi, dieci
anni dopo, con Beppe Ferrara),
Carlo Levi (“Cristo si e’ fermato
a Eboli”, ancora con Rosi).
Alla seconda, invece, quella più consistente, il sindacalista fatto fuori dalla mafia (“Un
uomo da bruciare” di OrsiniFratelli Taviani), il tenente del
Regio Esercito nelle trincee veneto-friulane della Prima guerra mondiale (“Uomini contro”
di Rosi), un ispettore di polizia
sadico, complessato e strafottente (“Indagine su un cittadi-
no al di sopra di ogni sospetto” di
Petri), un operaio della catena di
montaggio (“La classe operaia va
in paradiso”, di Petri), un direttore di giornale reazionario e cinico (“Sbatti il mostro in prima pagine”, di Bellocchio); un minatore
cileno (“Actas de Marusia”, di Littin); il comunista italiano clandestino sotto il fascismo (“Il Sospetto” di Maselli); un giudice non fascista durante il Ventennio (“Porte
aperte”. di Amelio), un autista di
corriera calabrese, claudicante, col
pallino del talent-scout sportivo
(“Un ragazzo di Calabria” di Comencini).... E ne abbiamo lasciati
fuori altri trenta: attore dalle mille
voci, camaleontico, capace di salti
mortali unici da uno stato d’animo
all’altro – dal migliore al peggiore
con tutte le nuance intermedie.
Basta fare mente locale sui soli
film che grazie soprattutto a lui si
sono accaparrati premi internazionali in tutto il mondo - Venezia, Cannes, Berlino, Los Angeles
compresi - diversissimi per genere e storie, dunque, per protagonista. Un esempio per tutti: Cannes,
1972, “La classe operaia va in Paradiso” di Elio Petri ed a “Il Caso
Mattei” di Francesco Rosi, vincono ex aequo la Palma D’Oro. Per
quattro quinti lo “spazio” è occupato, rispettivamente, dal metalmeccanico e dal presidente Mattei...
Gian Maria Volonté nasce a Milano (9 aprile, 1933), ma cresce a
Torino. Nemmeno ventenne si aggrega alla compagnia ‘Il Carro dei
Tespi’. Ha inizio il percorso che lo
porterà a scegliere la carriera artistica. Scende a Roma, frequenta
l’Accademia. Il talento è talmente straripante che arrivano i primi
ingaggi “seri”: a ventiquattro anni
è con Diana Torrieri (“Fedra” di
Racine), in teatro e in televisione.
L’anno dopo, con Giorgio Albertazzi (è Rogozin ne “L’idiota” di
Dostoevskij).
Lo chiamano alla Stabile di
Trieste, poi al Piccolo di Milano e
all’Estiva di Verona. Qui è Romeo, mentre la splendida ventenne
Carla Gravina è Giulietta. Grande
successo e grande scandalo! Galeotto, il Balcone, tra i due nasce un
legame che durerà molti anni, nascerà Giovanna. (A proposito della
sua vita sentimentale, dopo Gravina ci sarà la sceneggiatrice Amalia
Balducci, infine Angelica Ippolito,
la figlioccia di Eduardo De Filippo, con cui rimarrà fino alla fine
dei suoi giorni, a Velletri.).
Lo scopre il cinema. Piccole
parti, fino all’incontro con i Fratelli Taviani e Valentino Orsini: è
il protagonista del loro film sulla
mafia: “Un uomo da bruciare”.
È la seconda pellicola di un
nuovo genere, quello della terza
rivoluzione cinematografica italiana del dopoguerra. Dopo il Neorealismo dei Visconti, Rossellini, De Sica e la Commedia all’italiana dei Monicelli, Risi, Germi,
ecco il Cinema di documentazione
sociale o Cinema politico, avviato
da Francesco Rosi con “Salvatore
Giuliano”.
Ovviamente, come tutte le “rivoluzioni” italiane non ha nulla
a che fare con la Presa della Bastiglia: è un procedere di “nuovo” che si affianca al “vecchio”,
lo contamina, lo deruba, per qualche tempo ci va a braccetto. Inoltre, è macchinosa, con continui
“stop and go”.
Volonté dovrà aspettare i Settanta prima di ergersi a monumento di questo genere, ancora in
nuce.
Ma c’ è già chi crede in lui:
sono Sergio Leone e Mario Monicelli: “Per un pugno di dollari”,
“Per un dollaro in piu’” e, tra i due,
“L’Armata Brancaleone”.
Nel frattempo continua ad apparire in tv, con un seguito incredibile: a ruota, “Vita di Michelangelo Buonarroti”, un episodio de “Il
Commissario Maigret” con Gino
Cervi e “Caravaggio”.
A intermittenza fa teatro.
Nell’anno in cui cui sullo schermo
fa il pistolero, in un buco del cen-
tro di Roma, con suo fratello, altri
colleghi e l’attore e regista Carlo
Cecchi mettono in scena “Il Vicario”, un dramma tedesco che accusa Pio XII di contiguità col nazismo. La polizia interrompe e poi
dell’attore e del cinema, soprattutto in rapporto alla società, “filosofia” che viene da lontano, da un
fuoritempo ora, però, maturo.
Riporto, in proposito, quanto
mi disse nell’intervista (uscita su
“La Voce del Popolo” e mandata in onda da Radio-Capodistria)
concessami nel dicembre del 1973
a Roma, durante una pausa delle riprese di “Il Sospetto” di Citto Maselli.
“L’inizio della mia attivita’ di
attore risale a molti anni fa. Ne
avevo diciotto quando ho incominciato. Dopo i corsi dell’Accademia nazionale di arte drammatica, mi sono subito orientato
verso un tipo di scelte che in quel
momento erano espresse principalmente dal discorso avviato nel
Piccolo Teatro di Milano da Grassi e Strehler. Il mio rientamento
e la mia formazione sono passati
attraverso una serie di esperienze
culturali che in quel frangente caratterizzavano una parte ed era la
più significativa, del teatro italiano. I miei propositi, ovviamente in
corrispondenza con le condizioni
obiettive che di volta in volta mi
si offrivano, erano rivolti ad una
saldatura tra la professione di attore e la ricerca tematica: ossia a un
tentativo di coerenza che in alcuni
momenti sarà risultato meno incisivo, e in altri si è potuto esprimere con maggiore chiarezza. Pertanto, il mio impegno politico-ideale
è da vedersi impostato e vincolato
a una serie di vicende che hanno
caratterizzato il mio lavoro di attore. Si tratta di un discorso su una
visione del ruolo di attore meno
astratta e scollata, ma aderente alla
concreta realtà sociale”.
Quando Federico Fellini gli propone
il personaggio di Casanova (il
protagonista, poi, sarà Donald
Sutherland), prima di accettare
Gian Maria vuole sapere per filo e
per segno quali sono le “intenzioni”
artistiche e culturali del Regista; il
che manda Fellini in crisi: è Rosi a
raccontarlo; riferisce che il grande
Riminese gli aveva detto: “Voleva
sapere da me cose che nemmeno
io so, io invento durante le riprese,
giorno per giorno...”
vieta del tutto lo spettacolo: “È
contrario allo spirito del Concordato”.
Tira aria nuova in Italia, non
la si avvertiva da più di vent’anni: da ovest soffia il Sessantotto
franco-tedesco, arrivatovi con il
Sessantasette universitario americano. L’Italia che non vuol essere
da meno, in piazza ci manda pure
i lavoratori...
E Cinecittà smette di tergiversare: accanto al Cinema d’Autore, alla Commedia all’italiana e a
film pseudopolizieschi e altrettanto (pseudo) erotici, avvia la stagione del Cinema politico.
Ognuno dei suddetti generi ha
più simboli, campioni, “marchi di
fabbrica”. L’ultimo arrivato ha lui,
solo lui, Gian Maria Volonté. Che
si vede piovere offerte su offerte, e
da registi di grande valenza artistica e robusta preparazione culturale. D’altronde, lui ha già introiettato una propria filosofia sul ruolo
È d’obbligo, a questo punto,
una digressione.
Quando all’epoca, ma specialmente qualche anno prima, Gian
Maria Volonté riusciva a far sentire la propria voce ed esprimeva
concetti, come quello su riportato,
spesso anche nel mondo progressista e di sinistra lo si tacciava di
“radical-chic, “snob”, “comunista
salottiero”...
Parecchio tempo dopo – perché
lui non ne ha mai voluto parlare – si
saprà che in quegli anni rompe un
contratto da 250 milioni di lire con
Dino De Laurentiis, per poter fare
solo i film che gli aggradano, comprese certe pellicole sperimentali a zero entrate... Quando Francis
Ford Coppola lo chiama per il “Padrino”, lui ringrazia e va in Messico a fare un film corale del cileno
Miguel Littin (“Actas de Marusia”
- Nomination all’Oscar e Premio
Golden Ariel). Quando Federico
Fellini gli propone il personaggio
cultura 7
Sabato, 15 dicembre 2012
Lo ricorderemo anche come un grande del teatro italiano
cia: sguardo malinconico
di Casanova (il protagonista, poi,
sarà Donald Sutherland), prima di
accettare Gian Maria vuole sapere per filo e per segno quali sono
le “intenzioni” artistiche e culturali del Regista; il che manda Fellini in crisi: è Rosi a raccontarlo; riferisce che il grande Riminese gli aveva detto: “Voleva sapere da me cose che nemmeno io so,
io invento durante le riprese, giorno per giorno...”. Un “no, grazie”,
anche a Michelangelo Antonioni...
Insomma, altro che “comunista da
salotto”... e poi dà soldi al partito
e ai gruppi extraparlamentari. Durante la lavorazione de “Il Sospetto”, a Torino, paga di tasca propria
una giornata di lavoro alla troupe
e alla produzione, perché vuole
essere vicino, anche fisicamente,
ai lavoratori della ‘Leyland Innocenti’ che occupano la frabbrica in
segno di protesta verso la proprietà che la vuole smantellare...
Tra il 1970 e il 1976, il cinema
italiano è Gian Maria Volonté. I
film li ho già citati all’inizio.
Tutto cambia, quasi di botto,
nella seconda metà del decennio.
Il terrorismo BR alza la mira.
Non uccide solo magistrati, poliziotti, giornalisti, sindacalisti, politici. Ammazza anche qualsiasi
voglia, desiderio, speranza, ipotesi di cambiamento sociale e politico in Italia.
Ciò, assieme alla nascita
dell’emittenza televisiva privata
che erode ampie fette di pubblico
al cinema, la massiccia importazione di film americani, che influiscono sui gusti e l’invecchiamento
dei grandi cineasti-artisti italiani e
stranieri, comporta il de profundis
per il Cinema di denuncia sociale
e politico. Inoltre, i De Laurentiis ed i Ponti se ne sono già andati dall’Italia, Cristaldi, Grimaldi
e Lombardo sono spiazzati. Si ricorre a coproduzioni internazionali, ma con prodotti pensati più per
il mercato estero (da dove arriva
il grosso dei capitali) che non per
quello italiano. Entra in campo la
RAI, è una sana iniezione di danaro, ma anch’essa è interessa-
Sulla scena del film “Per un pugno di dollari”
ta a tematiche politicamente non
impegnate/impegnative. Del resto,
nessuno meglio della dirigenza
dell’ente radiotelevisivo di Stato
è a conoscenza del summenzionato mutamento dei desiderata della
platea cinematografica: è subentrato uno spettatore privo di appetiti politico-culturali e artistici.
È un momento in cui Gian Maria Volonté è costretto a tirare i
remi in barca. Fa un breve ritorno al teatro e mette in scena “Girotondo” di Arthur Schnitzler, con
Carla Gravina. Ma anche il teatro
è in disarmo. I grandi enti pubblici, al pari delle compagnie private,
propendono per un teatro “gastronomico” - diceva Brecht - magari
con tanti classici in repertorio, ma
a base di allestimenti tutti trine e
merletti.
Ciò nondimeno, Volonté resta un artista interessante e appetibile, ovunque. Certo, sono
A intermittenza fa teatro. Nell’anno
in cui sullo schermo fa il pistolero,
in un buco del centro di Roma,
con suo fratello, altri colleghi e
l’attore e regista Carlo Cecchi
mettono in scena “Il Vicario”, un
dramma tedesco che accusa Pio XII
di contiguità col nazismo. La polizia
interrompe e poi vieta del tutto
lo spettacolo: “È contrario
allo spirito del Concordato”
film a più basso costo, quasi di
nicchia. Ma ci sono.
Prima però di tornare a girare
Gian Maria ha da vedersela con
la salute: fuma come una ciminiera, cancro ai polmoni, operazione.
Riuscita, ma continuerà a fumare... Riprende l’attività nel 1983:
“La morte di Mario Ricci” dello
svizzero Claude Goretta, e Palma
D’Oro a Cannes come migliore attore protagonista. Un paio di anni
dopo, con Beppe Ferrara, dà vita a
“Il Caso Moro” in cui, oltre a fare
un ritratto umanissimo del leader
democristiano assassinato dalle
Brigate Rosse, irride all’imbecillità politica, culturale, ideologica
dei terroristi. Torna a lavorare con
Rosi. Si erano lasciati, con un romanzo cinematografato - “Cristo
si è fermato a Eboli”: un saggio,
il suo, di recitazione e di mimetica
– si ritrovano con un altro roman-
zo, “Cronaca di una morte annunciata” di Gabriel Garcia Marquez.
A ruota, ecco “Un ragazzo di
Calabria” di Luigi Comencini, in
cui l’apporto di Volonté è eccezionale.
Subito dopo si reca in Belgio
e per Andre’ Delvaux indossa i
panni del medico e alchimista Zenone, nella descrizione che ne fa
Marguerite Yourcenar nel romanzo “L’Opera al Nero”, che sarà anche il titolo del film.
Infine, da segnalare quattro delle ultime sei pellicole girate: “Tre colonne in cronaca”,
con Carlo Vanzina; “Porte aperte”, con Gianni Amelio; “Una storia semplice”,con Emidio Greco,
tratto dall’omonimo romanzo del
“suo” autore: Leonardo Sciascia.
Prima di quello che sarà il suo
ultimo film, a Velletri, fa rivivere
attraverso il coinvolgimento di tutta la cittadinanza, in una sorta di
“teatro totale in piazza”, un bombardamento subito dalla città, nel
1944, tratto dal diario di un sacerdote diventa uno spettacolo che attira numeroso pubblico.
Infine, arriva “Il tiranno Banderas/Tirano Banderas”, con José
Luis García Sánchez: un ritorno all’antico, film politico al cento per cento. È il 1993, il suo ultimo film. E l’ultimo riconoscimento, il Seminci: migliore attore della
Semana Internacional de Cine de
Valladolid.
Ed eccoci all’inverno del 1994.
Si gira da alcuni giorni, quando, la
notte, Gian Maria Volonté è colpito da un infarto. Fatale. La notizia rimbalza in Italia, dove si scopre che sia l’Uomo che l’Artista
erano amati di gran lunga di più di
quanto si pensasse.
8 cultura
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La veracità dei rapporti di Sepùlveda e le incriminazioni di Slavenka Drakulić
Dicembre, mese di feste e regali e un buon libro è sempre gradito. Nelle librerie italiane ritorna Luis Sepùlveda
con Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico (Guanda) Chi non ricorda la bellissima ‘Storia di una
gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’? Come dimenticare la commovente vicenda della gabbiana Kengah?
A sedici anni di distanza dal besteller che ha conquistato
il pubblico dei bambini e degli adulti, Sepúlveda torna a
scrivere un’altra storia di amicizia fra esseri molto diversi
fra loro. Questa volta siamo a Monaco. Max è un ragazzo
come tutti gli altri ma ha un amico speciale, il gatto Mix,
con cui condivide il suo appartamento. La storia è semplice e spontanea, così come il pubblico cui è indirizzato: i
bambini, ma anche gli adulti-bambini, in grado di cogliere l’essenzialità e la veracità dei rapporti, soprattutto quelli che, dopo un’iniziale diffidenza, si instaurano fra esseri
molto diversi e distanti fra loro. Il linguaggio è quello diretto, naturale e disambiguante di chi non teme la verità e
punta dritto al sodo.
Dopo il famoso “maghetto” ecco ritorna J.K. Rowling
con il primo romanzo per adulti, Il seggio vacante (Salani) è una storia ricca di humor nero, capace di sorprendere
e far riflettere. A chi la visitasse per la prima volta, Pagford apparirebbe come un’idilliaca cittadina inglese. Un
gioiello incastonato tra verdi colline, con un’antica abbazia, una piazza lastricata di ciottoli, case eleganti e prati
ordinatamente falciati. Ma sotto lo smalto perfetto di questo villaggio di provincia si nascondono ipocrisia, rancori
e tradimenti. La morte di Barry Fairbrother, il consigliere
più amato e odiato della città, porta alla luce il vero cuore di Pagford e dei suoi abitanti e la lotta per il suo posto all’interno dell’amministrazione locale è un terremoto che sbriciola le fondamenta, che rimescola divisioni e
alleanze dove emerge una verità spiazzante, ironica, pu-
rificatrice: che la vita è imprevedibile e spietata,
e affrontarla con coraggio è l’unico modo per non
farsi travolgere, oltre che dalle sue tragedie, anche dal ridicolo.
Milioni di milioni (Sellerio) di Marco Malvaldi è un romanzo che inizia con l’ironica freschezza
di una barzelletta, e che poi, gradualmente, come
i milioni di milioni di fiocchi di neve che si posano al suolo di Montesodi, si trasforma in una storia articolata e complessa fino ad assumere i toni di
un giallo avvincente. Il tutto condito da una lingua
ai limiti del vernacolare, funzionale alla creazione dell’intreccio e alla resa dei personaggi. Un libro piacevole che alterna elementi comici a stralci
narrativi più profondi e complessi, divertente e al
tempo accattivante. Insomma, siamo in pieno stile
Malvaldi che, neanche stavolta, delude le aspettative del lettore e anzi lo incoraggia a seguire le gesta
del malcapitato personaggio.
Nelle librerie croate, segnaliamo il romanzo Klub nepopravljivih optimista (Vuković&Runjić) di Jean-Michel
Guenassia. Un libro coraggioso che racconta di un gruppo di apolidi scappati dai paesi dell’est per salvarsi la vita
in piena epoca staliniana, buoni comunisti (non tutti) che
lasciano il loro paese con disperazione e che al loro arrivo
in Francia sono messi in disparte in quanto simbolo di una
tragedia in corso di cui nessuno degli europei, per vari motivi, vuole sapere. Avvincente e intenso, al di là dell’esperienza personale del protagonista che funge da filo rosso e
lega le avventure e il passato degli altri personaggi. Non
soltanto un romanzo tipicamente “francese”, da godersi appieno, ma anche e soprattutto uno spaccato di vite vissute,
da un mondo che effettivamente conosciamo poco e su cui
le illazioni si sprecano. Non si tratta di un saggio storico,
Anno VIII / n. 69 del 15 dicembre 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ, supplementi a cura di Errol Superina / Progetto editoriale di Silvio Forza
Art director: Daria Vlahov Horvat / edizione: CULTURA
Redattore esecutivo: Silvio Forza e Diana Pirjavec Rameša
Impaginazione: Annamaria Picco
Collaboratori: Patrizia Lalić, Viviana Car, Paolo Quazzolo
Foto: Goran Žiković
La redazione del presente inserto ha consultato i siti: www.knjiga.hr, www.kulturaplus.com, www.sveznazdor.com
www.svetknjige.si, www.emka.si, www.librerie.it, www.italialibri.net, e la rivista “Arte” (Giorgio Mondadori Editore)
si tratta di un intreccio di vite, di drammi che possono
fare anche a meno della precisione dello storiografo.
Santiago Roncagliolo presenta il suo primo romanzo Crveni travanj (Edicije Božičević). Un giallo, o meglio ancora un noir, dove il lettore troverà, o crederà di
aver trovato, le risposte alle domande che si succedono
lungo le pagine del libro, a cominciare ovviamente da
quella primigenia: chi è il colpevole? Chi ha compiuto i
delitti? E tuttavia, al di là della soluzione di questi enigmi, resterà sospesa l’impressione insopprimibile che la
vera colpa è condivisa da tutti, dall’intera comunità di
Ayacucho e più oltre, al fondo di tutte le cose, dal genere umano. Il volume si presenta diverso, interessante,
ben scritto e coinvolgente, si sviluppa su trame ben diverse dai soliti serial killer americani.
Slavenka Drakulić si ripresenta con un’opera di
forte impatto emotivo Optužena (VBZ). In nome
dell’amore anche la violenza è permessa. Molte sono
le tonalità che descrivono un rapporto coniugale che in
un momento scoppia come una bolla di sapone. Le vicende che seguiranno porteranno ad un forma di amoreodio tra madre e figlia allevata tra violenza e punizioni.
Sempre corretta nella sue descrizioni, a volte dai toni
forti, la Drakulić, ha ancora una volta dimostrato di essere un autore ai ai vertici della letteratura croata contemporanea.
Viviana Car